di Sergio Talamo Roma – 26 giugno 2009 – Le donne iraniane sono in piazza, lottano con la rabbia di chi ama il futuro, rischiano e ci credono più di tutti. Un inviato occidentale racconta di sentirle esortare i loro uomini: “Perché state lì seduti? Alzatevi! Alzatevi!”. Se la libertà, questa volta, si affaccerà sulla Persia martoriata sarà merito loro, non dell’Occidente. E quelle donne sono sorelle delle irachene, delle palestinesi, delle pakistane, delle afgane che si dibattono fra nuovi diritti e antiche imposizioni, e che sono andate in massa a votare appena ne hanno avuto la possibilità.
Le donne islamiche d’Occidente sono mille volte più silenziose, più spente, più rassegnate. Indagini impietose documentano che spesso in Italia e in Europa vivono peggio che in Egitto o in Marocco, dove le società progrediscono anche se lentamente.
Dentro i nostri paesi, formalmente liberi, si creano tante piccole repubbliche islamiche fondamentaliste che di fatto sono il regno di nessuno. Non ci sono ambasciate né codici internazionali a scandire la legge dell’oppressione sulla donna islamica-europea. E’ una legge arcaica, fatta per lo più di divieti e di botte: ti vesti come dico io, frequenti chi dico io, esci e parli solo se lo dico io.
E’ una legge elementare decisa spesso da un uomo solo, un marito, un padre, un fratello; qualche volta innestata nelle rozze regole del clan religioso-familiare. Riti tribali che magari prosperano dentro un condominio, quindi alla luce del sole. Per i “talebani d’Occidente” la protezione maggiore è l’indifferenza del resto del mondo, mascherata da rispetto della libertà e delle tradizioni altrui.
In realtà, le società che chiudono gli occhi su tali forme di schiavitù domestica sono corrose, malate di inedia. Hanno dimenticato che la libertà e la legge non esistono più nel momento stesso in cui vengono negate al tuo vicino di casa meno forte e meno protetto.
In questo sonno della ragione – da cui ci si risveglia solo se una ragazza viene massacrata dai parenti perché ama un giovane italiano – arriva il giro di vite di Nicholas Sarkozy. “Il burqa è un segno di avvilimento, non è il benvenuto sul territorio francese”, ha detto il presidente alle Camere riunite nella reggia di Versailles.
Chi è contrario alla posizione di Sarkozy evoca lo spettro della morale di Stato, cioè del rischio di uno Stato che imponga o vieti per sue ragioni etiche. In effetti, sulla carta l’obiezione ha qualche fondamento, che peraltro affonda le radici nella storia culturale francese ed europea. La Francia di Montesquieu e di Voltaire è anche quella di Rousseau, Robespierre e Napoleone: impregnò l’Europa di nuovi valori come l’eguaglianza e la libertà, ma infuse anche i germi dello statalismo e dell’oppressione. E’ il destino dei francesi, oscillare sempre fra le spinte liberali e le scorciatoie giacobine.
Ma questa volta il vantaggio di un forte intervento statale è molto superiore al rischio. Ha un valore simbolico altissimo: l’Europa non intende più fingere una libertà generale e uno Stato di diritto che in realtà non ci sono.
Certo, impedire il burqa resta una norma astratta. Non equivale ad intervenire con energia sulle reali violazioni dei diritti delle donne. Sono migliaia le donne che, a viso scoperto, ricevono di continuo umiliazioni e mutilazioni fisiche e morali. Ma perlomeno oggi si stabilisce un principio, si manda un messaggio univoco che comprenderanno anche le donne dei più derelitti paesi illiberali: in Europa la famiglia è un istituto che amplia la libertà e non la reprime; in Europa lo Stato non tollera i simboli del dominio di un sesso sull’altro.
Di certo ci sarà qualche donna che nel burqa trova realmente una sua forma di identità culturale. Ma questa donna sarà ben contenta di rinunciarvi per una causa così alta: liberare il suo viso per liberare il suo mondo.