Inca: “Il 26% delle vertenze da lavoratori immigrati”. Mottura: “Da immigrazione spinta positiva per il sindacato”
Roma – 19 maggio 2010 – La contrattazione collettiva è uno dei punti dolenti nel rapporto tra sindacati e immigrazione.
Nel 2002 l’Ires aveva contato su 350 solo 30 contratti collettivi nazionali che trattavano materie legate alla specifica condizione del lavoratore straniero. “L’Istituto oggi non possiede dati aggiornati – spiega Emanuele Galossi, ricercatore dell’Ires -, ma non c’è motivo di credere che quell’8,5% sia aumentato in modo significativo. Sarà invece sicuramente un po’ migliorata la situazione a livello aziendale – aggiunge – dove all’epoca facevano riferimento agli immigrati 8 accordi su 850”.
Anche le materie relative alla condizione specifica dei lavoratori immigrati più spesso trattati nei contratti sono gli stessi e sono essenzialmente tre: ore di permesso per la formazione linguistica e/o professionale; accorpamento delle ferie per poter andare nel paese d’origine; attività di monitoraggio dei problemi e delle dinamiche del lavoro degli immigrati.
Qui e li, soprattutto nell’ambito della contrattazione di secondo livello (quindi territoriale e aziendale) si incontrano altri i temi, come: permessi preghiera e/o per ricorrenze religiose, richiamo alle armi in patria, malattia contratta durane ritorno in patria, menu differenziati nelle mense, abbigliamento, materiale informativo in più lingue, tutela pari opportunità e poco altro. L’inserimento di questi temi risulta molto difficile.
“Abbiamo provato con le ore dedicate alla preghiera dei musulmani a Varese – dice il segretario nazionale Feneal-Uil Franco Gullo – ma non ci siamo riusciti. Stiamo trattando l’accorpamento ferie e poi l’ultimo contratto degli edili ha introdotto le 16 ore di formazione pre-ingresso dei neoassunti: il materiale didattico è stato preparato in varie lingue”. “Molto spesso – osserva Piero Soldini (Cgil) – una serie di diritti non sono scritti nei contratti, ma ci sono degli accordi verbali secondo i quali vengono comunque concessi”.
Ma a parte la zoppicante questione della “contrattazione migrante” i sindacati devono far fronte a una serie di problematiche legate ai loro “utenti stranieri”, che vanno dalla difesa dei tesserati in caso di vertenza alla lotta per una maggiore tutela dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie. Dice Enrico Moroni, responsabile ufficio immigrazione Inca (il patronato della Cgil): “Su 100 vertenze, 26 sono di lavoratori stranieri. Sono soprattutto al Nord e coinvolgono più spesso i settori edilizia, commercio e terziario”.
I problemi
Le questioni problematiche sono ben note: discriminazione degli stranieri nel assegnare loro lavori più pesanti, meno qualificati, sottoinquadramento, turni di lavoro più scomodi, part-time che diventano full-time, straordinari non retribuiti, mancata erogazione dei contributi, mancata concessione di ferie e permessi, inadempienze in materia di tredicesime e liquidazioni, licenziamenti senza giusta causa ne preavviso, scarsa attenzione alle esigenze religiose ed alimentari, caporalato, lavoro nero. Il lavoratore immigrato fatica a far rispettare le tutele contrattuali molto più del suo collega italiano. Anche le differenze negli stipendi spesso rispecchiano questa disparità.
Ovviamente gli strumenti sindacali di difesa dei lavoratori vengono applicati indipendentemente dalla cittadinanza. Ma ogni organismo di tutela risponde a proprio modo alle questioni specificatamente legate ai lavoratori immigrati – sia concernenti il lavoro, sia relative alle vita sociale.
La Cisl ha messo in prima linea l’Anolf – Associazione nazionale oltre le frontiere, composta per il 99% da immigrati – che da vent’anni si propone di promuovere l’uguaglianza e la valorizzazione delle diversità attraverso una serie di azioni e servizi. Solo la Cisl oggi ha un segretario confederale con delega all’immigrazione che l’immigrazione l’ha vissuta in prima persona: Liliana Ocmin è stata clandestina, ha lavorato come badante, ambulante, baby sitter e al contempo si è laureata in giurisprudenza e ha fatto carriera all’interno del sindacato.
“Non c’è maggiore discriminazione – dice Ocmin – che trattare in modo uguale gli stranieri, nel senso che questi lavoratori hanno esigenze specifiche che vanno soddisfatte. Penso agli infortuni sul lavoro, alla valorizzazione delle qualifiche conseguite nel paese d’origine, alla bilateralità, alla legge sulla cittadinanza e alla necessità di applicare lo ius soli”.
L’immigrazione è stata uno dei tre grandi temi al centro dell’ultimo sciopero generale indetto dalla CGIL (il 12 marzo scorso). Affiancandolo a lavoro e fisco, la Cgil ha chiesto politiche di accoglienza e di lotta alle nuove schiavitù, con la sospensione delle legge Bossi-Fini per i migranti in cerca di occupazione e con l’abolizione del reato di clandestinità.
“Ci siamo battuti con tante attività e centinaia di cause – dice Piero Soldini – per rimuovere ogni sorta di discriminazione e razzismo, come nel caso dei contributi per l’affitto o del bonus bebè a Brescia dove – prima che impugnassimo la delibera comunale – gli immigrati venivano esclusi dal beneficio”. Soldini parla inoltre di rendere deducibile il lavoro delle badanti per dare una spinta alla regolarizzazione, parla di qualificazione dei lavoratori, di un albo e di servizi specifici organizzati dalle istituzioni locali dietro una potenziata contrattazione territoriale.
C’è poi la campagna ‘oro rosso’, contro il lavoro nero e lo schiavismo in agricoltura e ci sono le battaglie di Piero Soldini ‘contro i tempi lunghi, insopportabili, che gli immigrati sono costretti a subire per il rinnovo del permesso di soggiorno’. “Anche perché – spiega – la Cgil ha seguito centinaia di vertenze con datori di lavoro che hanno licenziato o sospeso dal lavoro e dalla retribuzione gli immigrati che erano in attesa di rinnovo non riconoscendo valore alla ricevuta’.
E ai problemi legati al permesso di soggiorno pensa anche la Uil. “Il cedolino crea problemi al datore di lavoro – conferma Giuseppe Casucci – e inoltre sono un grosso guaio i sei mesi di ricerca occupazione dopo un licenziamento”. Lo scorso anno infatti la Uil ha chiesto (invano) al Governo e al Parlamento “che venga considerata l’indennità di disoccupazione come reddito valido per il rinnovo del permesso di soggiorno, e che i sei mesi per ricerca di occupazione scattino solo dopo il termine di godimento di questo istituto”. Ma come dice Casucci, “per gli immigrati riusciamo ad ottenere ben poco con questo Governo”.
"Una spinta positiva"
“All’inizio della sindacalizzazione ‘migrante’, negli anni ’80, ‘90 – spiega il sociologo Enrico Pugliese – il sindacato è stato attivissimo nella tutela degli stranieri, ma piuttosto come persone che in quanto lavoratori”. “Erano affidati ai ‘servizi’ – aggiunge un altro sociologo, Giovanni Mottura – di fatto erano ghettizzati come clienti del welfare. La Cisl ha tirato in ballo l’Anolf, mentre la Cgil – che in un primo momento ha equiparato il lavoratore straniero all’italiano – ha creato strutture al proprio interno che rispondevano alle esigenze specifiche dell’immigrato. Il problema si è presentato quando le tessere straniere sono aumentate vertiginosamente e anche le diverse federazioni di categorie dovevano iniziare a prenderne coscienza”.
“Nel giudicare l’approccio dei sindacati con l’immigrato – sottolinea Pugliese – bisogna tener conto delle realtà presenti nel Sud e nel Nord. Nell’Italia settentrionale, dove più spesso il lavoratore sta in fabbrica, i problemi da gestire riguardano principalmente il suo stato di lavoratore. Ma al Sud – continua Pugliese – c’è un quadro completamente diverso, in cui bisogna chiedersi innanzitutto dove il lavoratore dorme, se mangia, se è ricattabile: va tutelato prima come persona e poi come lavoratore. E secondo me nel Meridione il sindacato si sta muovendo, ma non a sufficienza”.
“Oggi – dice Mottura – sta avvenendo un trapasso, è un momento cruciale: i passi avanti sono indubbi, ma ancora tanti sono quelli da fare. L’immigrazione può solo dare una spinta positiva al mondo sindacale che sta passando un brutto periodo. L’importante è che i sindacati si assumano personalmente le conseguenze di ciò che deriva da questo milione di iscritti”.
Infine, va detto che ogni tanto esce fuori la questione circa l’esigenza dei lavoratori stranieri di avere un proprio organismo di tutela, nell’ambito delle azioni dei sindacati sul tema immigrazione. “Ma è più semplice fare le battaglie all’interno di una struttura preesistente – commenta il sociologo Francesco Carchedi – che creare una struttura ex novo anche se con lo scopo di trattare problematiche specificatamente legate al lavoratore immigrato”. Dello stesso parere Moulay el-Akkioui (Fillea Cgil): “Le divisioni non servono – dice -, l’unione fa la forza”.
Antonia Ilinova
Immigrati e sindacato. 4a e ultima puntata
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