Rapporto del Cnel sugli imprenditori stranieri in Italia. “Si sono sostituiti agli autoctoni grazie alla loro grande voglia di lavorare”
Roma – 28 novembre 2011 – Sono diffusi in tutta Italia, non solo nei distretti industriali del Nord, ben integrati con le piccole imprese italiane, motivati e propensi al rischio, assumono personale e collaboratori italiani e soprattutto hanno voglia di crescere.
Sono gli imprenditori immigrati, come appaiono disegnati in un’indagine del Cnel, “Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia”, svolta dall’Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri in collaborazione con il Dipartimento di studi sociali e politici, e presentata stamani a Villa Lubin.
Da un sondaggio su 200 imprenditori il Cnel ha ottenuto l’identikit dell’immigrato imprenditore: ha 40 anni e in media più figli rispetto all’omologo italiano, una discreta formazione scolastica (oltre 12 anni di studio nel paese d’origine). Vive in Italia da 18 anni e il peggioramento delle condizioni economiche nel paese di provenienza è la causa principale dell’emigrazione. Ha avviato in Italia una propria attività per essere autonomo, guadagnare di più e valorizzare le proprie capacità. Nella maggior parte dei casi è titolare dell’impresa nella quale impiega circa 5 addetti, prevalentemente italiani.
Secondo quanto emerge dallo studio, la maggior parte degli immigrati imprenditori (67%) ha messo su un’impresa auto finanziandosi grazie a un lungo periodo di lavoro come dipendente. La maggior parte degli imprenditori immigrati considera il rapporto con gli italiani più importante rispetto alle relazioni con i connazionali e con i familiari. Clienti e fornitori sono soprattutto italiani (con differenze significative a seconda dei comparti), così come lo sono i consulenti cui si rivolgono (fiscali, contabili e in materia di sicurezza e igiene). Sul fronte dell’occupazione, il 22,2% degli intervistati propende ad assumere personale italiano.
Le piccole imprese degli immigrati, al pari di quelle autoctone, considerano la reputazione un elemento fondamentale per il loro successo, quindi puntano sull’aumento della qualità piuttosto che sulla riduzione dei prezzi e temono la concorrenza degli altri stranieri più che quella degli italiani.
Queste realtà hanno gli stessi problemi dell’impresa italiana: troppo piccole di fronte alla crisi, osserva il rapporto del Cnel. Se si chiede che la piccola impresa contribuisca allo sviluppo economico si deve chiedere agli imprenditori immigrati quello che si chiede agli italiani: crescere. Altrimenti la presenza degli imprenditori immigrati rischia di innescare una competizione al ribasso e a risentirne sarà la produttività del sistema.
A fare da volano per le imprese etniche non è stata solo la maggiore diffusione della piccola e piccolissima impresa in Italia, ma anche il mancato ricambio generazionale nella gestione dell’impresa italiana, dovuta alla scarsa motivazione dei figli, ai modesti guadagni e tempi di lavoro più lunghi. In questa situazione, nota il rapporto, gli immigrati si sono sostituiti agli autoctoni grazie alla loro grande voglia di lavorare, che deriva soprattutto dalla voglia di riscatto sociale, più che economico, e alle più modeste aspettative reddituali.
Molti imprenditori intervistati hanno conquistato la cittadinanza economica e sembrano inclusi definitivamente nel tessuto delle piccole imprese che operano in Italia. L’auspicio ora è che queste imprese da piccole diventino medie. Il percorso verso la cittadinanza sociale è invece più lungo e coinvolgerà la generazione dei figli nati in Italia, che parlano l’Italiano e si preparano nelle scuole e università italiane, che rileveranno l’azienda e che, al pari dei figli dei piccoli imprenditori italiani riproporranno il problema della motivazione e di trasmissione delle capacità imprenditoriali.