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Consiglio di Stato 3 marzo 2007

CONSIGLIO DI STATO , SEZ. VI, DECISIONE N° 1024 DEL 03 MARZO 2007

Cittadina extracomunitaria regolare – attività illecita – ordine pubblico e sicurezza dello Stato – espulsione legittima

Qualora la cittadina extracomunitaria eserciti un’attività diversa da quella prevista nel permesso di soggiorno e tale attività non sia un’attività lecita, la Pubblica Autorità è legittimata ad emettere un decreto di espulsione.

Infatti la normativa italiana si ispira conseguentemente al principio del cosiddetto flusso regolato, tendente cioè ad ammettere l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel limite di un numero massimo accoglibile, tale da assicurare loro un adeguato lavoro, mezzi idonei di sostentamento, in una parola un livello minimo di dignità e di diritti, e tra questi, quelli alla casa ed allo studio. Due sono i limiti esterni a questa impostazione: uno è dato dalle ragioni di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, per cui, quando sono in gioco tali valori, uno straniero può sempre essere espulso, anche ove si trovi regolarmente in Italia. L’altro limite, questa volta di segno opposto, è dato da particolari esigenze umanitarie, che consentono una deroga alle norme sull’ingresso; si tratta, infatti, di dare priorità ai principii dei diritti dell’uomo fatti propri dalla Costituzione ed introdotti nell’ordinamento italiano con la ratifica di numerosi accordi internazionali

Consiglio di Stato

Sezione VI

Decisione 3 marzo 2007, n. 1024

N. 1024/07
Reg.Dec.
N. 381 Reg.Ric.
ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 381/2003, proposto da:

– M. T., rappresentata e difesa dagli avv.ti Daniele Sussmann (detto Steinberg) e (prima Enrico Romanelli e poi) Gabriele Pafundi ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in viale Giulio Cesare n. 14, Roma;

contro

– la Questura di Milano, in persona del Questore in carica, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in via dei Portoghesi n. 12, Roma;

– il Ministero dell’interno, in persona del Ministro in carica, non costituito in giudizio;

per annullamento e/o riforma, previa sospensione dell’efficacia,

della sentenza breve del T.a.r. Lombardia, Milano, sezione I, n. 3721/2002, resa inter partes e concernente il decreto 8 novembre 2001 n. 237/C.A. del Questore di Milano, recante revoca del permesso di soggiorno per omessa documentazione di rapporto di lavoro domestico.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati.

Visto l’atto di costituzione in giudizio della p.a. appellata.

Visti gli atti tutti della causa.

Relatore, alla pubblica udienza del 12 gennaio 2007, il Consigliere Aldo SCOLA.

Uditi, per le parti, l’avv. Gabriele Pafundi e l’avvocato dello Stato Melania Nicoli.

Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

M. T. impugnava quanto in epigrafe dinanzi al T.a.r. Lombardia per violazione di legge ed eccesso di potere.

Si costituiva in giudizio la p.a. intimata, opponendosi al ricorso (richiamante un episodio di meretricio in occasione del quale l’attuale appellante era stata rintracciata dalla Polizia di Stato) e chiedendone il rigetto.

Il ricorso veniva poi respinto (per mancata produzione di documentazione idonea a comprovare la sussistenza di un rapporto di lavoro domestico, per il quale sarebbe stato richiesto il permesso di soggiorno) con sentenza breve, prontamente impugnata dalla soccombente in prime cure per eccesso di potere per errore materiale di giudizio e di motivazione, in contrasto con le risultanze istruttorie, essendosi tratte conclusioni difformi da quelle razionalmente ricollegabili alla documentazione da essa depositata (denuncia del rapporto lavorativo; dichiarazioni del datore di lavoro; previa apposita ordinanza istruttoria: copia della domanda di libretto di lavoro; certificazione telematica I.N.P.S. di Monza, attestante l’effettività del rapporto lavorativo e l’avvenuto versamento dei relativi contributi previdenziali con bollettino postale), anche dopo apposito rinvio dell’originaria udienza camerale.

La Questura appellata si costituiva in giudizio e resisteva al gravame.

Questa sezione, con decisione interlocutoria n. 5452/2006, disponeva incombenti istruttorii, richiedendo una documentata relazione illustrativa, estrinsecatasi nella nota 18 ottobre 2006 della Questura di Milano, attestante l’inesistenza di documentazione accertante il citato rapporto di lavoro, insieme ad un fax 28 febbraio 2006 dell’I.N.P.S. di Monza notiziante circa l’inesistenza di comunicazioni interruttive del medesimo.

All’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione, dopo il rigetto di una domanda cautelare (con ordinanza n. 739/2003 della IV sezione di questo Consiglio di Stato) e la costituzione in giudizio della M. con un nuovo difensore (essendo deceduto il precedente).

DIRITTO

Prima di affrontare il merito del presente ricorso, appare opportuno delineare brevemente i principii cui si è ispirato il legislatore nel disciplinare l’ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari in Italia, in particolare con la legge 6 marzo 1998 n. 40.

Va, innanzitutto, rilevato che la scelta è stata quella di individuare una strada intermedia tra l’apertura incondizionata al flusso migratorio e la chiusura totale, sulla scia di quanto è avvenuto nel corso della storia in quasi tutti i Paesi democratici.

La normativa italiana si ispira conseguentemente al principio del cosiddetto flusso regolato, tendente cioè ad ammettere l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel limite di un numero massimo accoglibile, tale da assicurare loro un adeguato lavoro, mezzi idonei di sostentamento, in una parola un livello minimo di dignità e di diritti, e tra questi, quelli alla casa ed allo studio.

Quale corollario alla decisione di porre un limite all’ingresso dei cittadini extracomunitari, si pone l’obbligo di espulsione per quelli che non sono in regola, sia in relazione all’ingresso, sia al soggiorno.

Due sono i limiti esterni all’impostazione sopra esposta: uno è dato dalle ragioni di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, per cui, quando sono in gioco tali valori, uno straniero può sempre essere espulso, anche ove si trovi regolarmente in Italia.

L’altro limite, questa volta di segno opposto, è dato da particolari esigenze umanitarie, che consentono una deroga alle norme sull’ingresso; si tratta, infatti, di dare priorità ai principii dei diritti dell’uomo fatti propri dalla Costituzione ed introdotti nell’ordinamento italiano con la ratifica di numerosi accordi internazionali.

Viene in rilievo, in particolare, la tutela della famiglia e dei minori (donde le deroghe all’ingresso per favorire il ricongiungimento familiare), di coloro che si trovano in particolari situazioni di difficoltà (per cui si concede l’asilo per straordinari motivi umanitari, come è avvenuto per gli sfollati dalla ex Jugoslavia), fino a giungere, in caso di persecuzioni dovute a ragioni etniche, religiose o politiche, alla concessione dello status di rifugiato politico.

E’ evidente quindi che, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza 21 novembre 1997 n. 353), le ragioni della solidarietà umana non possono essere sancite al di fuori di un bilanciamento dei valori in gioco: tra questi, vi sono indubbiamente la difesa dei diritti umani, la tutela dei perseguitati ed il diritto di asilo, ma altresì, di non minore rilevanza, il presidio delle frontiere (nazionali e comunitarie), la tutela della sicurezza interna del Paese, la lotta alla criminalità, lo stesso principio di legalità, per cui chi rispetta la legge non può trovarsi in una posizione deteriore rispetto a chi la elude.

Il bilanciamento dei vari interessi in gioco è stato effettuato dal legislatore, che ha graduato le varie situazioni: in alcuni casi, ad esempio, ha disposto l’espulsione dello straniero in via quasi automatica, al semplice verificarsi di determinati presupposti, mentre, in altri, ha ammesso una certa discrezionalità in capo all’amministrazione, nella valutazione e ponderazione dei fatti.

Naturalmente, anche nell’applicazione della normativa sui cittadini extracomunitari trovano ingresso i principi generali dell’ordinamento, in specie quelli regolanti l’attività della p.a., tra cui basterà menzionare quello relativo all’obbligo della motivazione dell’atto amministrativo (più attenuato qualora si tratti di un atto dovuto, più stringente qualora la discrezionalità dell’amministrazione sia più estesa), quello dell’economicità dell’azione amministrativa, per cui determinate irregolarità si considerano sanate qualora l’atto abbia raggiunto il suo scopo, ed infine la potestà dell’amministrazione di revocare in ogni tempo un atto amministrativo ad effetti permanenti, qualora vengano meno i presupposti per la sua concessione.

Nella specie, qualunque documento attendibile per provenienza e contenuti avrebbe potuto fornire la prova dell’attività di lavoro domestico di cui sopra, ma la documentazione presentata dall’interessata non è risultata idonea a tale scopo: il che non poteva che ragionevolmente implicare il rigetto del gravame introduttivo, in rapporto al riscontrato e non contestato esercizio di un’attività che, per le modalità e le condizioni di tempo e luogo, non poteva che apparire di meretricio (episodio, dunque, idoneo a comprovare lo svolgimento di una prestazione diversa da quella per la quale era stato chiesto il permesso di soggiorno).

Conseguentemente, risultando incontrovertibilmente accertato lo svolgimento, da parte sua, di un’attività che, oltre a non potersi catalogare tra le fonti lecite di guadagno (indipendentemente da ogni collegamento con il mutevole concetto di buon costume), si configurava (anche e soprattutto) come ontologicamente diversa da quella ipoteticamente giustificante il rilascio del permesso di soggiorno, l’impugnata revoca di quest’ultimo deve ritenersi di certo sottratta alle prospettate censure (al di là di semplici istanze, denunce e compiacenti dichiarazioni prodotte).

L’appello va, dunque, respinto, con salvezza dell’impugnata sentenza, mentre le spese del giudizio di seconda istanza possono integralmente compensarsi per giusti motivi tra le parti in causa, tenuto anche conto del loro reciproco impegno difensivo e della natura della vertenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta,

·         respinge l’appello;

·         compensa spese ed onorari del giudizio di secondo grado.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, Palazzo Spada, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 12 gennaio 2007, con l’intervento dei signori magistrati:

Claudio VARRONE Presidente

Sabino LUCE Consigliere

Paolo BUONVINO Consigliere

Domenico CAFINI Consigliere

Aldo SCOLA Consigliere rel. est.

 

Presidente
f.to Claudio Varrone

Consigliere Segretario
f.to Aldo Scola f.to Annamaria Ricci

DEPOSITATA IN SEGRETERIA, il 03/03/2007

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