I figli degli immigrati discriminati anche in campo, per diventare professionisti devono fare i conti con le quote di ingresso. Il presidente della Federcalcio: “Ci riescono in pochissimi. Serve un serio esame della situazione”
Roma – 12 gennaio 2012 – Le seconde generazioni scendono in campo, in senso letterale.
Undicimila figli di immigrati sono tesserati nelle società giovanili calcistiche, eppure, anche quando corrono dietro a un pallone, la legge continua a considerarli stranieri. Così chi vuole diventare professionista deve fare i conti con i tetti imposti ai giocatori che arrivano dall’estero.
“Quello sportivo è un ordinamento derivato, è sottomesso naturalmente alle leggi dello stato italiano e se per lo stato un ragazzo è extracomunitario, noi non possiamo obiettare nulla e agire di conseguenza” dice oggi su Repubblica il presidente della Federcalcio Giancarlo Abete. “Come tutti i lavoratori extracomunitari, anche i professionisti del calcio obbediscono al criterio di contingentamento degli ingressi nel nostro Paese. Nel calcio il tetto massimo è 60”.
Quel limite taglia fuori anche molte seconde generazioni. “Pochissimi – spiega Abete – sono gli extracomunitari che sfondano la soglia tra dilettantismo e professionismo. Le cause sono da ricercare certamente in una burocrazia che rende le cose più complesse, ma anche nella naturale selezione”.
Se però le regole non cambiano, nella “naturale selezione” non conterà solo l’abilità in campo, ma anche la sfortuna di avere genitori stranieri. Abete allarga le braccia: “Noi vogliamo aprire il calcio al più grande numero possibile di ragazzi. Chiediamo però alla politica un serio esame della situazione”.