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Il test del Dna? Lo hanno già fatto in 6mila

Previsto dal decreto sui ricongiungimenti, non è una novità. Ecco come funziona

Roma – 25 settembre 2008 – Il test del dna inserito dal governo nei ricongiungimenti ha strappato molti titoli sui giornali. In realtà, sono già sette anni che genitori e figli, divisi da migliaia di chilometri tra l’Italia e i quattro angoli del mondo, dimostrano così, ai nostri consolati, che sono davvero una famiglia. 


La procedura è gestita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), in collaborazione con il nostro ministero degli Esteri ed è stata applicata per la prima volta nel 2001 nei consolati di Addis Abeba, in Etiopia e a Nairobi, in Kenia. È lì che si dovevano esaminare le richieste di ricongiungimento per i rifugiati somali, che però, fuggiti da un paese in guerra, non erano in grado di fornire certificati di famiglia.

6mila già testati
"Abbiamo quindi avviato un progetto che permetteva, a chi voleva, di sottoporsi al test per dimostrare la parentela con chi chiedeva dall’Italia il ricongiungimento. Dal 2005, d’accordo con la Farnesina,  abbiamo reso possibile il test anche in tutti gli altri Paesi del mondo" racconta Flavio Di Giacomo, addetto stampa dell’Oim.


Finora l’esame del dna è stato richiesto soprattutto in paesi dell’Africa subsahariana, come Nigeria,  Cameroon, Ghana e Congo, ma anche in Bangladesi, Cina, Ecuador, Colombia e altre nazioni dove è difficile produrre certificazioni attendibili. Succede, ad esempio, quando c’è una guerra in corso e gli uffici non funzionano, oppure quando il sistema anagrafico locale ha standard diversi, ritenuti insufficienti dalle nostre rappresentanze consolari.


In una lettera inviata a maggio dal Capo Missione in Italia dell’Oim, Peter Schatzer, al Ministro degli Esteri Franco Frattini, c’è un bilancio del progetto: in 7 anni oltre 6.000 persone si sono sottoposte al test. Questo  ha accertato il vincolo di parentela di 5.680 persone mentre ha stabilito l’infondatezza di 354 richieste, un dato che ridimensionerebbe l’allarme per una strumentalizzazione dei ricongiungimenti, se non fosse che il test è volontario e quindi, chi sa di non passarlo, difficilmente vi si sottopone.


Nei mesi scorsi ci sono stati dei contatti tra governo e Oim e tutto lascia presumere che anche i test di cui parla il nuovo decreto verranno affidati questa organizzazione. Ma come funzionano?

400 euro a famiglia
"Chi chiede il ricongiungimento viene a Roma nei nostri uffici e si fa prelevare un campione di dna con un’operazione semplicissima: basta passare un tamponcino all’interno della bocca" spiega Di Giacomo. "La stessa cosa fa, negli uffici consolari all’estero, il genitore o il figlio chiamato in Italia. I campioni vengono quindi inviati in un laboratorio a Roma che li confronta e stabilisce se c’è un rapporto di parentela". Dal test alla risposta passano, a seconda dei casi, da 2 a 8 settimane.


L’esame, come prevede anche il decreto, è pagato dai diretti interessati: 155 euro a testa, più 90 dollari per gestione pratica, costi di spedizione ecc. Vuol dire che per un ricongiungimento standard, ad esempio tra padre e figlio, la famiglia che tenta di riunirsi deve sborsare circa 400 euro.


Non è poco, soprattutto se si considerano gli stipendi nei Paesi d’origine. “Ma siamo comunque sensibilmente sotto il prezzo di mercato del test, che nei laboratori specializzati può arrivare a mille euro. Comunque in caso di indigenza, come succede ad esempio per molti rifugiati, a pagare è l’Oim” puntualizza Di Giacomo.


Ma come scacciare lo spettro della schedatura genetica, che compare ogni volta che si parla di Dna? Nella banche dati dell’Oim passano informazioni molto sensibili. “Seguendo le indicazioni del garante della Privacy, conserviamo i dati solo per il tempo necessario all’accertamento della parentela, appena la pratica viene chiusa distruggiamo tutto” assicura l’addetto stampa dell’organizzazione.


Elvio Pasca


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