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Bonus bebè. Il giudice: “Anche agli immigrati che hanno un permesso per lavorare”

Il tribunale di Bergamo accoglie il ricorso di una mamma albanese e boccia il requisito della carta di soggiorno: “Discriminatorio, va contro le norme europee”. Guariso (Asgi): “Ora governo e Parlamento cambino la legge”

Roma – 15 aprile 2016 –  La carta di soggiorno non serve. Anche le mamme o i papà stranieri che hanno in tasca un “semplice” permesso di soggiorno, purché consenta di lavorare, hanno diritto al bonus bebè.

È il contrario di quello che hanno sostenuto finora il governo e l’Inps, negando l’assegno (80 o 160 euro al mese per tre anni) a migliaia di neo genitori immigrati. A dirlo però è un tribunale, che stamattina a Bergamo ha dato ragione a una mamma albanese e ha ordinato di pagarle il bonus, arretrati compresi. Il giudice del lavoro Maria Vittoria Azzollini ha accolto totalmente  il ricorso antidiscriminazione curato dall’avvocato  Alberto Guariso dell’Asgi. 

La chiave è una norma della direttiva europea, la 2011/98/UE, non recepita dall’Italia nonostante siano scaduti i termini, ma comunque già applicabile. Dice che gli immigrati che hanno un permesso che consente di svolgere attività lavorativa (come il permesso per motivi di lavoro o quello per motivi familiari) vanno equiparati ai cittadini europei, e quindi italiani, per quanto riguarda le prestazioni sociali. 

La legge di stabilità del 2015, che ha istituito il bonus bebè, dice però che gli immigrati possono averlo solo se sono titolari di un permesso per soggiornanti di lungo periodo, la cosiddetta carta di soggiorno.  Una discriminazione che l’Asgi ha denunciato da subito, chiedendo invano al governo, al Parlamento e all’Inps (che eroga l’assegno) di rispettare la direttiva europea.

Il giudice ha dato pienamente ragione all’Asgi, ricordando nella sua ordinanza che la direttiva prevale sulla legge italiana e che va applicata direttamente anche dalla pubblica amministrazione. L’Inps quindi “ deve immediatamente cessare dalla condotta discriminatoria” e riconoscere alla ricorrente “l’assegno di € 1.920 all’anno in relazione alla nascita della figlia, fino al compimento del terzo anno di età della stessa”. 

“Ce lo aspettavamo, perché la direttiva è chiarissima. Adesso attendiamo l’esito degli altri ricorsi che abbiamo presentato a Como, a Brescia e a Milano, ma abbiamo ottime ragioni di ritenere  che sarà lo stesso”  dice a Stranieriinitalia.it l’avvocato Guariso. È in arrivo insomma uno stillicidio di sentenze contro l’esclusione degli immigrati dal bonus bebè: “Il governo e il Parlamento avrebbero potuto evitarlo, ora si muovano ad adeguare la legge alle norme comunitarie”. 

Poche settimane fa l’Inps aveva ribadito che le domande di chi non ha la carta di soggiorno vanno rigettate. La decisione del tribunale di Bergamo demolisce quella presa di posizione e apre la strada, oltre che ad altri ricorsi, alla presentazione delle domande da parte di chi finora credeva di non avere i requisiti.  “A questo punto – sottolinea  Guariso – è importante che anche i patronati informino gli utenti e consiglino loro di presentare la domanda se hanno un permesso valido per lavorare”.   

Elvio Pasca

 

Ecco il testo dell’ordinanza del tribunale di Bergamo:

 

REPUBBLICA ITALIANA 

TRIBUNALE DI BERGAMO 

SEZIONE LAVORO 

N. R.G. 2820 /2015 

ORDINANZA 

ex art. 702 ter cpc 

 

Con ricorso ex artt. 28 D. Lgs 150/2011 e 44 TU Immigrazione depositato in data 21-12-2015 H.A. esponeva che: 

1) era cittadina albanese, legalmente residente in Italia dal 2008, in possesso di permesso di soggiorno prima per motivi di studio e poi per motivi familiari;

 

2) era coniugata con A.F., cittadino kossovaro, titolare di permesso di soggiorno per lavoro, occupato;

 

3) in data 27-5-2015 era nata la loro figlia A.; 

 

4) in data 3-7-2015 aveva presentato all’INPS domanda per beneficiare del c.d. bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014, previsto per ogni figlio nato o adottato tra l’1-1-2015 e il 31- 12-2017; 

 

5) in data 1-9-2015 l’INPS aveva respinto la sua domanda per mancanza permesso di soggiorno di lungo periodo; 

 

6) il ricorso presentato in via amministrativa non aveva avuto esito. 

 

Ciò premesso la ricorrente lamentava il contrasto dell’art. 1 c. 125 l. 190/2014 con le previsioni dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE che impone la parità di trattamento fra i “lavoratori” stranieri e i cittadini dello Stato europeo che li ospita per quanto riguarda il settore della sicurezza sociale (compresi i trattamenti di maternità e paternità assimilati e le prestazioni familiari); sosteneva l’immediata applicabilità del suddetto art. 12 della direttiva 2011/98/UE –benchè non riprodotto nel D. Lgs di recepimento 40/2014- e chiedeva l’accertamento della discriminazione posta in essere dall’INPS con il suo diniego, eventualmente attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, e la condanna dello stesso a rimuovere gli effetti della stessa riconoscendo in suo favore il bonus bebè, nella misura massima di € 1.920,00 all’anno, stanti le condizioni reddituali sue e del nucleo familiare; in subordine la ricorrente chiedeva di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art.1 c. 125 l. 190/2014 per contrasto sia con gli artt. 3 e 31 che con l’art. 117 Cost. 

 

L’INPS si costituiva tempestivamente eccependo l’inammissibilità del ricorso ex artt. 28 D. Lgs 150/2011 e 44 TU Immigrazione, e chiedendone il rigetto anche nel merito in quanto la ricorrente era priva del permesso di soggiorno di lungo periodo, cioè di uno dei requisiti per poter beneficiare del bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014; l’INPS inoltre richiamava la direttiva 2003/109/CE (che prevedeva un potere di deroga degli Stati alla parità di trattamento in materia di prestazioni non essenziali, fra cui andava annoverato il bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014), e contestava che la ricorrente soggiornasse in Italia in modo stabile, e comunque che avesse fornito prova idonea di ciò, come del requisito reddituale. 

 

All’udienza dell’8-3-2015, dopo l’interrogatorio libero della ricorrente e l’acquisizione di documentazione, il giudice si riservava. 

 

Sciogliendo tale riserva il giudice 

 

OSSERVA 

 

Il ricorso ex artt. 28 D. Lgs 150/2011 e 44 TU Immigrazione è ammissibile anche nei confronti dell’INPS e nonostante lo stesso si sia limitato ad applicare una norma positiva. 

 

L’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, non recepito nel nostro ordinamento nonostante l’emanazione del D. Lgs di recepimento (40/2014) e nonostante la scadenza dei termini, è preciso (“i lavoratori di cui al paragrafo 1, lett. b) e c) beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne … e) i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento CE 883/2004”) ed incondizionato (in quanto lo Stato non deve svolgere alcuna attività per applicarlo). 

 

Esso dunque, nei rapporti di tipo verticale, ha efficacia diretta nel senso che trova ingresso nell’ordinamento interno senza necessità di alcuna norma di recepimento, ponendosi nella gerarchia delle fonti al di sopra della legislazione nazionale, che deve essere disapplicata in caso di contrasto. 

Se infatti la legislazione nazionale pone lo straniero in una situazione di svantaggio rispetto al cittadino italiano realizza una forma di discriminazione oggettiva, sanzionabile a prescindere dalla convinzione soggettiva di chi la attui, di agire in applicazione della stessa. 

 

D’altra parte l’obbligo di applicazione diretta della norma comunitaria grava su tutti gli organi dello Stato, ivi comprese le pubbliche amministrazioni (v. sent. CGE 103/88 F.lli Costanzo). 

 

Detto ciò, e passando al merito del ricorso, condizionare il riconoscimento del bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014 ai figli di cittadini di stati extracomunitari, al possesso da parte di questi ultimi del permesso di soggiorno di lungo periodo, crea una disparità di trattamento fra cittadini italiani e stranieri che, nel caso in cui questi ultimi siano anche “lavoratori”, viola la direttiva 2011/98/UE, che non prevede alcuna possibilità di deroga, né per le prestazioni non essenziali né per quelle essenziali (il richiamo dell’INPS alla diversa direttiva 2003/109/UE, che all’art. 11 prevede tale possibilità con riguardo alla parità di trattamento del soggiornante di lungo periodo, non è pertanto pertinente). 

 

La ricorrente, nonchè il marito, sono stranieri “lavoratori” secondo la definizione datane dalla stessa direttiva (che al paragrafo 1 lett. b e c, richiamato dall’art. 12, qualifica come tali i “cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa … ai quali è consentito lavorare”, e i “cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno stato membro a fini lavorativi”. 

 

Il permesso di soggiorno per motivi familiari di cui è titolare la ricorrente le consente di lavorare (tant’è che la stessa ha lavorato dal 13-12-2013 al 28-8-2015), così come il permesso di soggiorno per lavoro subordinato (in seguito a sanatoria) di cui è titolare il marito (che infatti lavora con rapporto a tempo indeterminato). 

 

Gli stessi rientrano quindi fra i soggetti nei cui confronti è applicabile la direttiva 2011/98/UE, che come già detto non prevede possibilità di deroghe alla rigorosa parità di trattamento con i cittadini dello stato membro in cui soggiornano, per quanto concerne, fra l’altro, “i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento CE 883/2004” (v. art. 12). 

 

L’art. 3 di detto regolamento contiene un elenco che comprende alla lett. b) “i trattamenti di maternità e paternità assimilati” e alla lettera j) “le prestazioni familiari” (definite dalla lett. z) dell’art. 1 come “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1”). 

 

Il bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014 è un intervento volto a sostenere i redditi delle famiglie, al fine di incentivare la natalità e contribuire alla spese per il suo sostegno (e quindi a “compensare i carichi familiari” secondo la definizione di cui sopra), senza peraltro essere un “assegno speciale di nascita”, essendone prevista la corresponsione fino al compimento del terzo anno di età del figlio. 

 

Quanto alla nozione di soggiorno la stessa non può essere ricollegata alla titolarità del permesso di soggiorno di lunga durata (che richiede, oltre ad un requisito temporale di almeno 5 anni di presenza in Italia, anche requisiti reddituali incompatibili con le funzioni di sostegno economico e familiare tipiche della provvidenza de qua, come di tutte le altre per cui sono state sollevate, in tema di prestazioni per gli invalidi, analoghe questioni avanti la Corte Costituzionale, risolte tutte con dichiarazioni di incostituzionalità delle norme di volta in volta scrutinate), ma semplicemente alla legalità del soggiorno, che non attiene alla stabilità della condizione del soggiornante, ma alla sua effettività in senso sostanziale. 

 

Nel caso di specie non solo la ricorrente è legalmente soggiornante, ma lo è anche con una certa stabilità, cioè da diversi anni e con un radicamento familiare (marito occupato, casa in locazione e ora anche figlia). 

La stessa quindi è in possesso di tutti i requisiti per beneficiare del bonus bebè richiesto. 

 

Per quanto riguarda il requisito reddituale si osserva che, come richiesto dall’art. 1 c. 125 l. 190/2014. la ricorrente presenta un ISEE inferiore non solo ad € 25.000 all’anno (requisito per accedere al beneficio), ma anche ad € 7.000 (requisito per ottenere il raddoppio dello stesso). 

 

La prova è stata idoneamente a fornita attraverso la produzione dell’attestazione ISEE, determinato dall’INPS “sulla base delle componenti autodichiarate dal dichiarante, degli elementi acquisiti dall’Agenzia delle Entrate e di quelli presenti nei propri archivi amministrativi” (v. art. 11 c. 4 del DPCM 159/2013, cioè del regolamento concernente la revisione delle modalità, di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE). 

 

La stessa quindi non è una semplice autocertificazione. 

 

Ad ogni buon conto la ricorrente ha anche prodotto le dichiarazioni reddituali proprie e del marito, pur non avendo in sede amministrativa l’INPS contestato la sussistenza del requisito reddituale per il riconoscimento del beneficio richiesto. 

 

L’INPS deve immediatamente cessare dalla condotta discriminatoria posta in essere e per l’effetto viene condannato a riconoscere in favore di H.A.l’assegno di € 1.920 all’anno in relazione alla nascita della figlia A., avvenuta in data 27-5-2015, fino al compimento del terzo anno di età della stessa (ove rimangano immutate le condizioni di reddito). 

 

Ciò è sufficiente a rimuovere gli effetti della condotta de qua. 

 

Le spese seguono la soccombenza. 

 

P.Q.M. 

 

Accerta il carattere discriminatorio del mancato riconoscimento a H.A.dell’assegno di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/214 e condanna l’INPS a pagare in favore della stessa la somma di € 1.920 all’anno in relazione alla nascita della figlia A., avvenuta in data 27-5-2015, fino al compimento del terzo anno di età della stessa (ove rimangano immutate le condizioni di reddito); condanna l’INPS a rifondere alla ricorrente le spese di lite che liquida in € 2.000, oltre accessori. 

 

Si comunichi. 

 

Bergamo, 14-4-2016 

 

Il G.d.L. 

Dott.ssa Maria Vittoria Azzollini 

 

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