Respinto il ricorso di una donna albanese che voleva ricongiungersi al marito condannato Roma, 7 maggio 2010 – Non ha diritto al ricongiungimento familiare l’immigrato condannato per reati legati agli stupefacenti.
Lo rileva la Cassazione nel respingere il ricorso di un’albanese, Manola T., che chiedeva di potere ottenere il ricongiungimento con il marito condannato a 7 anni e 8 mesi di reclusione per reati di droga, in nome dell’"unità familiare".
Secondo la Suprema Corte la condanna per questo tipo di reato rientra tra i motivi che consentono di negare il diritto al ricongiungimento. In base alla legge che regola i flussi dell’immigrazione, infatti, "lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento familiare – ricorda la Cassazione – non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato".
Il no al ricongiungimento con il marito, all’albanese era già stato detto dalla Corte d’appello di Genova nel luglio 2008. Inutilmente Manola T. si è rivolta ai giudici chiedendo di potersi ricongiungere con il marito. La difesa dell’immigrata ha addotto il fatto che la condanna penale non costituisce "la sola ragione ostativa se il condannato non rappresenta una minaccia attuale e concreta".
Piazza Cavour ha bocciato il ricorso e ha rilevato che il no al ricongiugimento non è la "conseguenza automatica della riportata condanna penale", ma deriva dalla "peculiarità della condanna stessa, correlata al tipo e alla gravità del reato contestato, attinente a stupefacenti e per fatti di non lieve entità".