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Centri di Identificazione ed Espulsione. Ecco cosa dice il “piano” del Viminale

Un anno massimo di trattenimento, più assistenza sanitaria, ma anche aggravanti e celle di isolamento in caso di rivolta. Tutte le proposte contenute nel “documento programmatico sui Cie” scritto dalla task force guidata dal sottosegretario Ruperto

Roma – 19 aprile 2013 – I Centri di Identificazione ed Espulsione,  oltre a non funzionare (solo un “ospite” su due viene effettivamente rimpatriato), sono costosissimi per lo Stato. Bisogna allora intevenire, rendere “più breve possibile” la permanenza degli immigrati al loro interno, “prevenire situazioni di disordini e violenza” e rispettare i “diritti della persona”.

Sono queste le premesse dalle quali è partita la task force del ministero dell’Interno, guidata dal sottosegretario Saverio Ruperto, che negli scorsi mesi ha visitato i 13 Cie presenti in Italia, individuato dieci campi di intervento e avanzato una serie di proposte. Un lavoro confluito in un Documento Programmatico sui Centri di Identificazione ed Espulsione, che potete scaricare da qui in versione integrale.

Il documento ha già sollevato diverse polemiche. Se da un lato prevede misure che appaiono a tutti gli osservatori migliorative (dalla riduzione del tempo massimo di permanenza al rafforzamento dell’assistenza sanitaria) , non manca infatti di aspetti repressivi, ad esempio quando prevede un’aggravante per i reati compiuti nei Cie con la possibilità di isolare in “moduli idonei” (celle di sicurezza?) persone “dall’indole non pacifica”. Qui di seguito ne riassumiamo i passaggi principali.

Si parte dalla Gestione dei Centri. Oggi ogni Cie viene affidato a un singolo gestore, dopo una gara d’appalto: un sistema che “non sembra aver prodotto i risultati sperati in termini di efficienza ed economicità”. Di qui la proposta di appaltare la gestione di tutti i centri presenti in Italia a un unico ente, che potrebbe anche essere un raggruppamento temporaneo di imprese.

Più facile, per lo Stato, parlare con un unico interlocutore, che garantirebbe standard uniformi. Si prevedono anche risparmi di spesa e un innalzamento del livello qualitativo. La task force propone anche la formazione di “un corpo di operatori professionali, cui affidare la gestione delle attività che prevedono un contatto diretto con gli ospiti dei Centri”.

Quanto ai tempi di permanenza dei migranti nei CIE, la proposta è abbassare il tetto massimo dagli attuali 18 mesi a un anno.  Perché quei sei mesi in più, scrivono gli esperti, non servono: “È ragionevole ritenere  che il tempo di permanenza di 18 mesi sia comunque esuberante rispetto alla effettività delle procedure identificative, essendo pressoché trascurabile il numero di stranieri identificati trascorso l’anno di permanenza”.

Nel documento si cita  un dato: “Nel 2012, il tempo di permanenza media nei CIE è stato di 38 giorni, a fronte di un 50,6% di espulsi dopo il trattenimento”. E si spiega che i giudici di pace tendono comunque a non convalidare la proroga del trattenimento se lo straniero non è stato identificato entro i primi dodici mesi.

Per quanto riguarda l’accesso ai Centri, secondo la task force va bene il regime attuale. In particolare, dopo lo stop imposto da Maroni, una circolare del ministro Cancellieri ha riaperto le porte alla stampa, purchè si rispetti la privacy e non si intralci l’attività delle strutture. Si propone di dare più autonomia e discrezionalità ai prefetti, che potrebbero autorizzare l’ingresso senza il sì preventivo del dipartimento immigrazione del Viminale.

Un campo d’intervento importante è l’assistenza sanitaria all’interno dei centri, anche perché sono frequenti gli atti di autolesionismo così come le fughe dagli ospedali in cui vengono portati i migranti che hanno bisogno di cure. “Un servizio di assistenza sanitaria efficiente e completo favorisce, in primo luogo, una maggiore tutela della salute di tutti gli ospiti della struttura, e può contribuire a scongiurare questi tentativi di fuga”.

Tra le proposte presentate, ci sono un aumento delle ore di attività di medici e psicologi e la presenza in ogni Cie di un dirigente medico e di medici specialisti che potrebbero curare i migranti all’interno, senza bisogno di andare in ospedale. Servono poi accordi con le varie asl e convenzioni con i laboratori di analisi, così come “criteri oggettivi di esclusione degli ospiti dal CIE per motivi sanitari univoci”, e un “documento di indirizzo univoco”, che oggi non c’è,  per i trattamento delle malattie infettive e delle tossicodipendenze.

Uno degli aspetti più problematici è quella che il documento chiama l"eterogeneità degli status giuridici” all’interno dei Cie: ci sono ex detenuti, immigrati irregolari non ancora identificati, immigrati rimasti in Italia dopo la scadenza del permesso di soggiorno. Vuol dire che si trovano a condividere gli stessi spazi criminali e incensurati, ex lavoratori regolari e persone che hanno sempre vissuto per strada ecc.

Nel documento di auspica quindi “l’elaborazione di criteri di selezione per l’ingresso nei CIE …al fine di scongiurare un’eccessiva promiscuità”. E, per gli ex detenuti, si prevedono nuove procedure e organismi per identificarli ed espellerli più rapidamente, anche rafforzando la collaborazione tra i ministeri dell’Interno e della Giustizia.

Il punto più controverso è quello dedicato alla “tutela della pacifica convivenza all’interno dei Centri”, a fronte delle frequenti rivolte con feriti e danneggiamenti. Secondo gli esperti, i gruppi di ospiti che manifestano “condotte violente e antisociali” andrebbero frazionati, con trasferimenti in altre strutture e la creazione, all’interno di ogni cie, di “moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica”.  

Si propone poi un intervento normativo, con l’introduzione nel Testo unico sull’immigrazione di “un’aggravante per i reati commessi all’interno dei Cie, caratterizzati da condotta violenta”. Permetterebbe al prefetto e al questore, anche nell’ambito di “consigli di  disciplina” interni ai centri, di intervenire in caso di episodi “attuali o potenziali, di insurrezione o di grave danneggiamento” trattenendo gli autori in aree differenziate, comunque sempre sotto il controllo del giudice di pace.

Nel documento si ammette è l’ozio forzato a far aumentare aggressività e malessere nei Cie. Servono quindi una diversa divisione degli spazi, per svolgere attività ricreative e sportive, e più attenzione, da parte di chi gestisce i centri, nell’organizzare attività di animazione socio culturale e garantire le funzioni religiose.  Sistemi di “difesa passiva”, cioè recinzioni e altri tipi di barriere, dovrebbero consentire l’utilizzo degli impianti sportivi senza pericoli di fuga.

All’interno di tutti i CIE, propone ancora la task force, andrebbero “predisposte aule idonee per lo svolgimento delle udienze di convalida” delle espulsioni davanti al giudice di pace. In questo modo la polizia non sarebbe costretta ad accompagnare gli stranieri nei tribunali e si eviterebbe  un maggiore dispensio di risorse umane.

Quando alle modalità di trattenimento, il documento sollecita tutti gli operatori a garantire all’interno dei Cie la libertà di circolazione, la libertà  di colloquio, tra gli ospiti o con visitatori esterni, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, la libertà religiosa (servono luoghi di preghiera) e in generale tutti i diritti fondamentali della persona,  con particolare attenzione alla diritto di riceve una libera, corretta e trasparente assistenza legale.

Gli ospiti vanno informati su come funzionano le procedure che li  riguardano, ma anche sulle misure alternative all’espulsione forzata, cioè al partenza volontaria e il rimpatrio volontario assistito. In tutti i centri dovrebbe essere garantito l’uso dei cellulari, purché privi di telecamere e macchine fotografiche. Particolari restrizioni, per periodi di tempo determinati e anche solo per alcuni individui, sono previste quando i telefonini vengono utilizzati per organizzare rivolte o fughe.

Per disincentivare e affrontare rivolte e fughe, tutti i gestori chiedono di rafforzare la presenza delle forze di polizia all’interno dei centri, dove c’è sempre un ufficio stranieri decentrato della Questura. Gli esperti del Viminale non sembrano d’accordo: più vigilanza non vuol dire meno tensioni. Meglio, quindi,  puntare su sistemi di difesa passiva e, soprattutto, sul personale dei Cie, che dovrebbe “intercettare le situazioni di disagio e canalizzare i modo costruttivo, attraverso l’ascolto, il dialogo e la mediazione”.

Infine, il documento prospetta una “riorganizzazione della distribuzione dei CIE sul territorio” , facendo anche riferimento all’apertura di nuovi centri. Dal momento che “uno degli strumenti più efficaci per ridurre i tempi di identificazione è il ricorso alle autorità consolari del presunto Paese di provenienza” si propone di concentrarne la presenza soprattutto nelle città dove si trovano queste rappresentanze diplomatiche.

Elvio Pasca
 

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