Roma – 14 maggio 2013 – Nell’ultimo decennio l’area dei servizi di cura e assistenza per le famiglie ha rappresentato per l’Italia un grande bacino occupazionale. Il numero dei collaboratori che prestano servizio presso le famiglie, con formule e modalità diverse, è passato da poco più di un milione nel 2001 all’attuale 1 milione 655mila (+53%), registrando la crescita più significativa nella componente straniera, che oggi rappresenta il 77,3% del totale dei collaboratori.
Sono 2 milioni 600mila le famiglie (il 10,4% del totale) che hanno attivato servizi di collaborazione, di assistenza per anziani o persone non autosufficienti, e di baby sitting. E si stima che, mantenendo stabile il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei collaboratori salirà a 2 milioni 151mila nel 2030 (circa 500mila in più).
È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis e dall’Ismu per il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, presentata oggi a Roma.
I servizi di collaborazione domestica in Italia si caratterizzano ancora per la forte destrutturazione, anche quando comportano un’assistenza specialistica a persone non autosufficienti. Si configurano come un lavoro domestico a tutto tondo, con una quota dell’83,4% dei collaboratori occupati nel governo della casa, fino all’assistenza avanzata a persone non autosufficienti (15,3%) e a bambini (18,3%).
C’è poi una sottovalutazione del valore delle competenze, visto che solo il 14,3% dei collaboratori ha seguito un percorso formativo specifico, sebbene il 60% di essi si occupi dell’assistenza di una persona anziana. Va sottolineata anche l’assenza di intermediazione nel rapporto di lavoro. Solo il 19% delle famiglie si avvale di intermediari per il reclutamento. Ed esiste un’ampia area di lavoro totalmente irregolare (il 27,7% dei collaboratori) e «grigio» (il 37,8%) che si accompagna però al progressivo consolidamento di un quadro di tutele.
La scelta lavorativa dei collaboratori ha un carattere residuale, se il 71% di essi si trova nell’attuale condizione per necessità e il 35,4% perché ha perso il precedente lavoro (tra gli italiani la percentuale sale al 41%). Malgrado ciò, le opportunità occupazionali e reddituali hanno fatto apprezzare ai più la scelta compiuta: la maggioranza (il 70%) considera l’attuale occupazione ormai stabile e solo il 16% sta cercando attivamente un lavoro più soddisfacente (tra gli italiani il 25%).
In questo quadro, non possono essere trascurate le difficoltà che sempre più famiglie incontrano non solo nel reclutamento, ma anche nella gestione del rapporto con i collaboratori.
La pesantezza del «fattore organizzativo» le porta oggi a chiedere con forza, oltre agli sgravi di natura economica, una maggiore semplificazione per l’assunzione e la regolarizzazione dei collaboratori (lo chiede il 34% contro il 40% che richiede gli sgravi), ma anche servizi che sul territorio favoriscano l’incontro tra domanda e offerta (29%). Inoltre, il 34,5% delle famiglie vorrebbe l’istituzione di registri di collaboratori per garantirne la professionalità, il 39% vorrebbe invece che venissero create o potenziate le strutture che si occupano di reclutamento, mentre il 25,7% sarebbe pronto ad affidarsi totalmente a un’agenzia privata che sollevi la famiglia da tutte le incombenze di carattere burocratico e gestionale.
Ma le vere incognite che oggi incombono sulla sostenibilità del sistema sono soprattutto di natura economica. Il welfare informale ha un costo che grava quasi interamente sui bilanci familiari. A fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4% delle famiglie riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico, che si configura per i più nell’accompagno (19,9%).
Se la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5% sul reddito familiare, non stupisce che già oggi, in piena recessione, la maggioranza (56,4%) non riesca più a farvi fronte e sia corsa ai ripari: il 48,2% ha ridotto i consumi pur di mantenere il collaboratore, il 20,2% ha intaccato i propri risparmi, il 2,8% si è dovuto addirittura indebitare. L’irrinunciabilità del servizio sta peraltro portando alcune famiglie (il 15%, ma al Nord la percentuale arriva al 20%) a considerare l’ipotesi che un membro della stessa rinunci al lavoro per prendere il posto del collaboratore.
Crescono le esigenze, ma calano le risorse. Il 44,4% delle famiglie pensa che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di aumentare il numero dei collaboratori o delle ore di lavoro svolte. Ma al tempo stesso la metà delle famiglie (il 49,4%) sa che avrà sempre più difficoltà a sostenere il servizio e il 41,7% pensa addirittura che dovrà rinunciarci.
Tra le famiglie attualmente prive di badante, il 20% dichiara che in casa è presente una persona che ha bisogno di cura e assistenza. In questi casi non ci sono esborsi economici da sostenere, ma un costo non irrilevante grava comunque sulla famiglia: la rinuncia a lavorare da parte di un suo componente. Si stima che nel 25% delle famiglie in cui è presente una persona da assistere, e non si possa ricorrere ai servizi di un collaboratore, vi è una donna (nel 90,4% dei casi) giovane (il 66% ha meno di 44 anni) che ha rinunciato al lavoro: interrompendolo (9,7%), riducendo significativamente l’impegno (8,6%) o smettendo di cercarlo (6,7%).
Con una domanda crescente di protezione sociale, conclude la ricerca, è indispensabile incrociare il «welfare familiare», che impiega rilevanti risorse private, con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantirne la sostenibilità sociale.
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Servizi alla persona e occupazione nel welfare che cambia
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