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Flussi. Forlani: “Ecco cosa deve cambiare”

Intervista al neo direttore dell’Immigrazione del ministero del Lavoro. “Pensiamo prima a chi è già in Italia e ha perso il posto”

Roma – 30 agosto 2010 – Migliorare la programmazione dei flussi di ingresso, con quote che corrispondano finalmente alle esigenze reali di imprese e famiglie, e creare un sistema efficace di incontro tra domanda e offerta di lavoro, in Italia o direttamente nei Paesi di origine .

Sono gli obiettivi più urgenti della direzione immigrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, guidata da qualche mese da Natale Forlani. “Gli ingredienti per raggiungerli ci sono già tutti, anche senza modifiche normative, ora bisogna metterli insieme e farli funzionare“ assicura il neodirettore a Stranieriinitalia.it.

Come migliorare la programmazione dei flussi?
“Intanto abbiamo dati certi, demografici: da qui al 2020 l’Italia perderà 4 milioni di persone in età lavorativa, che non potranno essere compensati tutti dai disoccupati italiani, per un problema di scarsa mobilità sociale e territoriale. Poi bisogna mettere a punto una macchina di rilevazione dei fabbisogni reali numerici e qualitativi, anche gestendo al meglio le comunicazioni obbligatorie,  che tra le altre cose ci informano con precisione sui lavoratori che perdono il posto”.

Di stranieri che hanno perso il posto per la crisi economica ce ne sono tanti
“È vero,  e proprio questi lavoratori andrebbero reinseriti in maniera privilegiata, prima di ricorrere  a nuovi ingressi dall’estero. Altrimenti rischiamo di disperdere un capitale umano e professionale e di alimentare il sommerso, allargando la platea di persone risposte a lavorare per meno soldi e con meno diritti, anche a scapito dei regolari”.

È il ragionamento che finora ha bloccato un nuovo decreto flussi?
“Al momento non servono quote di ingresso generiche, i prossimi flussi riguarderanno lavoratori qualificati, prima c’è da riassorbire la disoccupazione di ritorno degli stranieri che sono già in Italia. Intanto dobbiamo anche stringere accordi con altri Paesi di origine, considerando che i flussi verso l’Italia stanno cambiando, diminuiscono quelli europei e aumentano, ad esempio, quelli dall’Asia.

Intanto però ci sono anche centinaia di migliaia di irregolari tagliati fuori dall’ultima sanatoria, che riguardava solo i domestici
“Limitare la regolarizzazione ai domestici è stata una scelta politica della quale prendo atto. Ora noi dobbiamo cercare di monitorare la situazione di chi ha perso il lavoro e di chiudere in fretta le pratiche dell’ultima regolarizzazione, superando le criticità che ancora ci sono in alcune province”.

Oggi chi ha perso il lavoro ha solo sei mesi per trovarne un altro, poi perde anche il permesso di soggiorno. Non è una regola troppo rigida?
“In realtà la legge parla di un permessi di ‘almeno’ sei mesi per cercare lavoro, e su questo si potrebbe intervenire, ma solo a fronte di un quadro preciso del fenomeno e a determinate condizioni. Mi sembra giusto, ad esempio, evitare che diventi irregolare chi ha perso il posto  ed è coinvolto nelle politiche attive del lavoro (come interventi di formazione, riqualificazione e orientamento n.d.r.). Ma non va messo in discussione il principio generale che può rimanere qui solo  chi ha un reddito sufficiente al suo sostentamento”.

Chi può far incontrare domanda e offerta di lavoro e dedicarsi al reinserimento dei disoccupati?
“Regioni, provincie, sindacati e associazioni di categoria attraverso gli enti bilaterali, agenzie per il lavoro, insomma operatori pubblici e privati autorizzati a questo tipo di interventi. Gli operatori ci sono, bisogna metterli in rete in maniera efficace. I dati ci dicono che gli immigrati trovano ancora il posto prevalentemente tramite il passaparola, e questa può diventare l’anticamera per sommerso e sfruttamento, solo il 30% si rivolge ai servizi per il lavoro”.

E nel lavoro domestico? Difficile che una famiglia cerchi una colf attraverso un’agenzia per il lavoro
 “Il lavoro domestico ha una sua specificità, che meriterebbe un discorso più ampio e soluzioni specifiche. Di certo oggi le cause principali del sommerso in questo settore sono la complessità della gestione del rapporto e gli alti costi per le famiglie. Serve allora una rete di servizi, dove per esempio i patronati potrebbero facilitare l’incontro tra domanda e offerta e affiancare lavoratori e datori nel rapporto di lavoro, e poi si dovrebbe intervenire sulla detraibilità delle spese”.

Il “Piano per l’integrazione” del governo punta molto sulla formazione nei Paesi d’origine. Non era già prevista dalla Bossi-Fini? Cosa non ha funzionato finora?
“Considerati investimenti e risultati gli esiti sono stati inadeguati. Qui servirebbe un intervento normativo, permettendo di operare anche all’estero ai soggetti autorizzati dalla legge Biagi a far incontrare domanda e offerta. Ma sopratutto bisogna cambiare l’impostazione della formazione nei Paesi di origine”.

Come? 
“Finora il ragionamento è stato: formo lavoratori all’estero e li inserisco nelle liste di lavoratori disponibili aspettando che qualche impresa li chiami. Così non va: le imprese dicano quali posti di lavoro sono disponibili e quindi si formeranno persone che possono rispondere a quel fabbisogno specifico, che hanno imparato anche un po’ di italiano e di educazione civica e che, terminata la formazione, hanno già un posto di lavoro garantito. Diversamente, si sprecano solo  risorse e gli unici a beneficiarne sono i formatori”.

E dopo la formazione che si fa, si aspetta il decreto flussi per farli arrivare in Italia?
“Il Piano per l’Integrazione propone di far  entrare questi lavoratori formati all’estero al di fuori delle quote, ma anche farli arrivare attraverso le quote, con la normativa attuale, non è difficile”.

Considerati i tempi di risposta degli Sportelli Unici alle domane di famiglie e imprese non sarà una passeggiata. Quanto può aspettare un’impresa che ha bisogno di lavoratori?
“I tempi lunghi oggi sono ancora un problema, serve un potenziamento dell’attività amministrativa. Gli Sportelli Unici, però, non possono essere caricati di tutte le incombenze del controllo delle domande. Dovrebbero essere solo un terminale, supportato da una rete di attori come associazioni di categoria, agenzie del lavoro e centri per l’impiego. Altrimenti il carico di lavoro diventa ingestibile”.

Elvio Pasca

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