Secondo una ricerca italiana, c’è "scarsa empatia" nei loro confronti, strettamente legata "al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore". Roma, 28 maggio 2010 – Il cervello dei razzisti funziona in modo peculiare. A differenza di quello degli altri, fatica infatti a identificarsi spontaneamente nella sofferenza fisica delle persone di altri gruppi etnici. E’ quanto emerge da uno studio tutto italiano, che sara’ pubblicato i primi di giugno su ‘Current Biology’. La prova e’ arrivata mostrando, a una quarantina di giovani volontari sottoposti a stimolazione magnetica transcranica – fra cui soggetti bianchi italiani ma anche individui neri africani residenti in Italia – immagini di aghi che venivano conficcati sul dorso di mani dalla pelle di diverso colore.
"Cio’ che abbiamo osservato – spiega in una nota Alessio Avenanti, psicologo 34enne dell’Universita’ di Bologna, coordinatore della ricerca – e’ che la scarsa empatia, cioe’ la capacita’ di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui, nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, e’ strettamente legata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore".
Infatti gli individui "con alto pregiudizio razziale tendono – dice lo studioso – a rispondere in maniera estremamente ridotta al dolore di soggetti dell’altro gruppo etnico, mentre persone con basso pregiudizio razziale tendono a reagire in modo simile al dolore dei componenti del proprio e dell’altro gruppo etnico".
Per prima cosa, gli studiosi hanno testato la reazione alle immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo razziale. Quando un bianco osserva un ago conficcarsi sulla mano di un’altra persona con la pelle del suo stesso colore, nel cervello si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione del dolore. Quindi e’ come se l’osservatore stesse provando la sofferenza in prima persona. Proprio Avenanti e il suo team dimostrarono gia’ qualche anno fa che questa reazione e’ comune di fronte al dolore altrui.
La stessa cosa accade quando un nero osserva la stessa scena su una mano di un altro nero. La novita’ messa in luce da questo studio e’ che, osservando l’ago conficcarsi sull’arto di un soggetto appartenente a un diverso gruppo etnico, questa reazione a volte e’ pressoche’ assente. Gli scienziati, a questo punto, si sono chiesti se non fosse banalmente la scarsa familiarita’ con il colore e i tratti somatici dell’altro gruppo a indurre la ridotta immedesimazione sensoriale. Come a dire: non siamo razzisti, e’ solo che ci ‘disegnano’ cosi’.
I ricercatori hanno quindi ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi, e il risultato e’ stato sorprendente. I due gruppi manifestavano empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarita’, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse in realta’ quella di un nero e viceversa. Cio’ suggerisce, secondo gli studiosi, che non e’ tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensi’ il significato culturale a esso associato.
Sarebbero in altri termini gli stereotipi e i pregiudizi razziali collegati al colore della pelle a influenzare, e perfino ad attenuare, la naturale compartecipazione alla sofferenza altrui, che si manifesta anche di fronte a soggetti percepiti come non familiari. Questa conclusione e’ rafforzata da un ulteriore test condotto dai ricercatori. I soggetti sono infatti stati sottoposti ad un’indagine standard sui pregiudizi razziali inconsci, che misura la spontaneita’ e la rapidita’ con cui idee positive o negative vengono associate a diversi gruppi etnici. Ebbene, si e’ palesata una evidente correlazione tra sentimenti razzisti latenti e la resistenza empatica. Tanto piu’ il soggetto, bianco o nero che fosse, e’ risultato inconsapevolmente razzista, tanto piu’ flebile e’ apparsa la sua capacita’ di immedesimazione, mentre individui non razzisti tendono a mostrare gli stessi livelli di empatia verso soggetti di entrambi i gruppi.
La sperimentazione si e’ conclusa nel 2009 e ha coinvolto circa 40 studenti universitari, per meta’ bianchi italiani e per meta’ neri africani residenti in Italia. La stimolazione magnetica transcranica consente di registrare l’attivazione dei circuiti neuronali associati a diversi movimenti del corpo, sensazioni tattili, dolorose, eccetera. Nel caso specifico, l’attivita’ cerebrale d’interesse e’ stata amplificata tramite un campo elettromagnetico e, quindi, misurata in base ai riflessi sui muscoli a livello periferico. Questo grazie a sensibilissimi sensori su dita e mani, capaci di rilevare anche la piu’ impercettibile delle contrazioni e delle reazioni dei soggetti.
In particolare, quando osserviamo una sensazione dolorosa negli altri, si verifica una brusca riduzione dell’attivita’ neuronale associata a quella sensazione, una riduzione che si manifesta anche nei riflessi sui muscoli collegati, come se si ‘congelassero’. Una reazione che viene cosi’ riscontrata e quantificata dai sensori.
Oltre ad Alessio Avenanti, che lavora presso al Centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell’Alma Mater, hanno preso parte alla ricerca anche Salvatore Maria Aglioti, dell’Universita’ La Sapienza di Roma e dell’Ircss Fondazione Santa Lucia, e Angela Sirigu, dell’Istituto di scienze cognitive del Cnrs francese a Lione.