Roma – 4 settembre 2013 – D’ora in poi gli italiani potranno mandare i figli a scuola da una maestra albanese, farsi curare da un medico di base nigeriano, chiedere informazioni in Comune a un impiegato marocchino. Entra infatti in vigore oggi la legge europea 2013, che apre agli immigrati, a determinate condizioni, le assunzioni nella Pubblica Amministrazione.
Tutto merito di una direttiva comunitaria per troppo tempo ignorata dal nostro Paese, tanto che a Bruxelles stava per scattare una costosa procedura di infrazione.
Alla fine l’Italia si è dovuta adeguare, e riconoscere che i cittadini stranieri titolari di un permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo, la cosiddetta carta di soggiorno, possono accedere al pubblico impiego alle stesse condizioni dei cittadini comunitari, dei rifugiati e di chi è titolare di un permesso per motivi umani. Condizioni che non sono certo la “resa allo straniero” paventata da qualcuno in questi giorni.
Innanzitutto, la carta di soggiorno va conquistata e finora ce l’ha fatta un immigrato su due. Servono infatti cinque anni di presenza regolare in Italia, ma anche un reddito sufficiente a mantenere se stessi e i familiari a carico e bisogna superare una prova di conoscenza della lingua italiana. Ciliegina sulla torta: una tassa di duecento euro da versare al momento della richiesta del documento.
Inoltre, la legge europea pone dei paletti severi anche sul tipo di lavoro che si può fare. I cittadini stranieri non potranno infatti aspirare a posti che “implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri” o che “attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Per diventare magistrato, poliziotto o militare, insomma, è insomma ancora indispensabile la cittadinanza italiana.
Elvio Pasca