Venticinque anni fa, nel marzo 1991, in pochi giorni arrivarono sulle coste pugliesi oltre ventimila albanesi. Fu la più grande serie di sbarchi della storia italiana. Il regista Roland Sejko (David di Donatello 2013 per il documentario Anija) era su una di quelle navi
Venticinque anni fa, nel marzo 1991, in pochi giorni arrivarono sulle coste pugliesi oltre ventimila albanesi. Fu la più grande serie di sbarchi della storia italiana. Il regista Roland Sejko (David di Donatello 2013 per il documentario Anija) era su una di quelle navi
Roma – 8 marzo 2011 – Non c’è bisogno che si scavi nella memoria per ricostruire quei giorni di inizio marzo del 1991. Chiunque li abbia vissuti, da protagonista o spettatore, non li può dimenticare, perché i ricordi di quei giorni, se non rimossi da altri colpi più duri, rimangono per la stragrande parte di noi, il momento di uno shock profondo, di un cambiamento di rotta che ha determinato definitivamente la nostra vita.
La sorte comune di quei giorni rende comuni anche i ricordi, i quali, anche se personali, diventano un unicum dove si intrecciano onde, navi, paure, speranza, delusione, gioia, un vortice di immagini e sentimenti che solo momenti particolarmente importanti possono suscitare.
La mia nave si chiamava “Legend”. In pochi la conoscono con questo nome, poiché nelle cronache dell’epoca è entrata come “la nave panamense”. Legend. Nomen, omen. Ma non potevo saperlo in quel momento che il mio destino e dei cinque mila miei connazionali era scritto sulla pancia arrugginita di quella nave carica di cemento, al porto di Durazzo il 6 marzo del 1991, dove mi sono trovato senza nemmeno capire il perché. Una Sirena, o Circe forse era, mi aveva convinto a cercare con insistenza una macchina e partire dalla mia città di Elbasan verso Durazzo. Oggi so, che senza quel richiamo invisibile che si nascondeva in me come in altri migliaia, non sarei partito, come non sarebbe partito nemmeno il mio collega, E.M. che prima unirsi a me, al cancello dell’azienda dove lavoravamo, mi disse “vabbè, vengo anche io a Durazzo con te, ma a condizione che torniamo a casa prima delle tre”.
Né lui, né io, capivamo come ci siamo trovati nella pancia di “Legend” dalla bandiera panamense. Nella pancia della nave che quel pomeriggio del 6 marzo inizio a riempirsi lentamente, le persone avevano in comune una sola cosa: fuggire dall’Albania comunista. Nessuno sapeva dove andava, e io nemmeno oggi so quale forza e voglia spingeva un ventenne a non rispondere al appello del padre salito su una gru alla banchina dove stava ancorata la nave. “Alban, dove sei Alban, scendi Alban” urlava l’uomo piangendo, mentre Alban si nascondeva dietro di me. Urlavano forse il mio nome anche i miei nella mia città, ed io, come Alban, quasi coetaneo di Alban, non sentivo niente oltre le sirene.
“Ma dimmi la cagion che non ti guardi/de lo scender qua giuso” chiede Dante a Beatrice. Nessuno ha potuto non confrontarsi con la domanda. Ma durante quelle 14 ore sulla nave ancorata al porto di Durazzo in pochi scesero, e da 300 persone che eravamo alle tre del pomeriggio, diventammo 5mila alle cinque del mattino successivo.
Alle cinque la nave iniziò a muoversi. Da ore non saliva più nessuno. Poliziotti con cani al guinzaglio giravano sulla banchina in attesa di un ordine che non arrivava. Qualcuno “convinse” il capitano greco che non c’era altro da fare che partire. Dissero che gli avevano messo una pistola alla tempia. Soltanto un’acclamazione, quando la nave si mosse di lato a sinistra. Poi a destra, lentamente. I bambini svegliati dal sonno della stanchezza attaccarono il pianto. “Tutti a sinistra!”, questo l’ordine perché la nave stracarica non era in equilibrio e i motori non ce la facevano ad tirarla fuori. Un destra-sinistra di massa da un lato all’altro, finche la bestia con 5mila persone sul ponte e migliaia di tonnellate di cemento ancora nella stiva, si avviò. Prima lentamente, ma poi egregiamente, come si addice ad una nave. In pochi minuti fu fuori dal porto.
Solo in quel momento la gente girò la testa verso Durazzo, quando questo cominciò a diventare sempre più piccolo. Dopo poco tempo sarebbe sparito dall’orizzonte.
A questo punto i ricordi diventano vaghi, per ritornare vivi, vivissimi all’arrivo. In mare aperto ricordo soltanto il rumore delle onde e la paura. Forse era il primo momento quando le persone cominciarono a capire che la fuga stava accadendo realmente, e diventarono silenziose. Cominciarono a capire che quel che avevano fatto era una vera pazzia, che la nave non ce l’avrebbe fatto ad attraversare il mare con, oltre il carico non scaricato al porto di Durazzo, anche cinquemila persone sul ponte.
Hanno avuto tutto il tempo di pensare alla morte e temerla. Dalle sei del mattino quando la nave lasciò il porto e fino al primo segno di vita oltre quella bestia navigante, passarono più di dieci ore. Furono due i segni di vita fuori della nave. Quattro delfini che accompagnarono per qualche minuto la navigazione, e due elicotteri italiani rumorosi che sono scesi quasi sulle teste delle persone che si rallegravano.
La calma della gente sparì poco dopo la sparizione degli elicotteri. Si formulavano teorie di complotto: che il capitano si era messo d’accordo con gli elicotteri via radio per farci tornare indietro senza dirci nulla, che il carburante stava finendo, che il capitano non conosceva bene la rotta…
Un gruppo di ragazzi stava col fiato sul collo al capitano greco il quale per tutto il viaggio non ci aveva mai nascosto il suo nervosismo. E forse con lo stesso metodo usato per convincerlo a partire l’hanno persuaso a lanciare un SOS perché a bordo due donne stavano per partorire, sempre secondo quelli che lo persuadevano.
Terra. Finalmente terra. Non era ancora del tutto buio quando vedemmo le prime luci della costa. Passò una vita prima che si avvicinasse ad una banchina del porto di Brindisi. Lì sotto, migliaia di altri albanesi salutavano gli altri appena giunti, alcuni gioivano quando vedevano dei conoscenti.
Non so come sono sceso dalla nave, forse con una corda. La prima cosa che vidi in Italia furono dei grandi graffiti sul muro del porto: “Antonella ama Luigi”. Sotto: “Craxi boia!”. Parlavo l’italiano, ma quest’ultima l’ho capita solo dopo qualche mese.
Dormimmo quella sera accanto alla nostra nave, coperti dai cellophan, stanchi morti. La mattina dopo ricominciammo a vivere.
Roland Sejko
Tante altre testimonianze su Shqiptariitalise.com, il giornale degli albanesi in Italia