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L’analisi. Il “modello Roma” per rompere il ghiaccio con la comunità cinese

Anche nella Capitale i commercianti cinesi denunciano controlli eccessivi da parte delle autorità. Ma c’è voglia di dialogo, in un clima di fiducia che rende possibile l’integrazione

"Un conflitto di civiltà per un carrello a piazza Vittorio". La tentazione di parafrasare il titolo del delizioso libro di Amara Lakous, uno dei casi letterari dell’anno appena passato, è forte. Non solo per l’ipotetica similitudine tra la nostra p.za Vittorio e il quartiere milanese intorno a via Paolo Sarpi, teatro degli ormai famosissimi scontri di piazza con un gruppo di cinesi di quella città, ma soprattutto per la quieta attenzione che quel libro dedica a svelare con quanti stereotipi siamo soliti guardare gli altri, specie se stranieri, se non conosciuti.

"Un’attenzione speciale?"
Tanto per spiegare, piazza Vittorio (Emanuele II) è la piazza centrale dell’Esquilino, il quartiere a maggior visibilità multiculturale della città, di cui la piazza è diventata sinonimo e, soprattutto, il toponimo del luogo della città in cui la comunità commerciale cinese ha negli ultimi 10-15 anni concentrato l’apertura di negozi, magazzini, bar, tavole calde, ristoranti.

Di conseguenza, ecco la similitudine, è la zona in cui da anni è in corso una sorta di competizione tra i commercianti cinesi e i tutori dell’ordine amministrativo e fiscale, con le immaginabili alterne vicende di rincorse, incursioni, accertamenti, ricorsi, assoluzioni, multe e chiusure di esercizi. Finora, a quanto sembra diversamente da Milano, questa competizione si è mantenuta in una sorta di accettabile conflittualità permanente, durante la quale ogni tanto qualcuno grida all’invasione che espelle i romani dal "proprio" quartiere e qualcun altro continua a lucrare sulla vendita delle "proprie" attività diventate ormai improduttive.
Tuttavia, però, qualche giorno fa, ma prima dei fatti di Milano, il Presidente della Consulta delle comunità straniere istituita dal Comune di Roma, il cinese Pan Yongchang, ha chiesto al Sindaco Veltroni un incontro con la comunità cinese, che si terrà oggi pomeriggio in Campidoglio. Secondo la comunità, nelle ultime settimane, fatalità nello stesso periodo di Milano, i controlli sui negozi avevano prodotto una serie di sanzioni, tra sequestri di merce e chiusura di esercizi, in misura straordinaria e si sa, chi non lavora non mangia, neanche i cinesi.

Da questo punto di vista qui a Roma è come a Milano: ognuno dei contendenti ha la sua verità, come ad esempio quelli, c’è scritto nella lettera consegnata al Sindaco Veltroni, che si sono visti chiudere il negozio perché omonimi del titolare di un altro esercizio trovato irregolare. In un certo senso con questa richiesta di incontro la comunità commerciale cinese sembra voler dire: niente da dire sui controlli, ci sono sempre stati, né sulle punizioni, anche quelle le abbiamo sempre avute, ma perché indiscriminate e perché con un esito così severo come la chiusura, che colpisce le persone e la loro possibilità di vita, ben oltre la pur dovuta e possibile sanzione amministrativa? Caro Sindaco, sembrano chiedere i commercianti, vogliamo valutare insieme se, per caso, questa volta siamo oggetto di un’attenzione un po’ "speciale"?

Il "modello Roma"
Ieri leggevo sulla cronaca romana di un quotidiano nazionale: "Il sindaco risponde al leader di AN … Noi inclusivi e multietnici. Veltroni contro Fini. E ora l’incontro con la comunità cinese". Certamente Roma ha un clima più temperato e piacevole di quello delle città del Nord, che induce alla riflessione, come il quieto distacco che Amara Lakous ha forse interiorizzato, ma la vera differenza sta proprio qui: "Noi inclusivi e multietnici", una sorta di laboratorio di condivisione di un progetto di città che ha come referente Walter Veltroni e che qualcuno ha chiamato "modello Roma".

Nella nostra città ormai da qualche anno 23 Consiglieri Aggiunti, rappresentanti dei cittadini stranieri, lavorano nel Consiglio Comunale e nei 19 Consigli Municipali, accanto ai Consiglieri italiani ma, soprattutto, esiste la Consulta delle Comunità straniere della città di Roma: 19 rappresentanti delle altrettante comunità immigrate più attive della città, eletti a suffragio universale dai cittadini stranieri non comunitari residenti, con il compito di interagire con l’intera Amministrazione comunale mediando gli interessi specifici delle singole comunità con quelli della complessiva realtà cittadina.

Queste rappresentanze, approvate a suo tempo da tutto il Consiglio Comunale senza alcun voto contrario, in poco più di quattro anni hanno creato un clima cittadino di meditata apertura di credito verso le possibilità di integrazione dei cittadini immigrati. Atteggiamento di fiducia che ha permesso, senza alcuna reazione critica, anzi, la nomina del congolese Jean Leonard Touadi ad assessore, non all’assistenza sociale degli immigrati ma specificatamente alle politiche della sicurezza cittadina.

Forse per questo a Roma possono funzionare, sotto le cure di una specifica Delegata del Sindaco, una Consulta delle religioni, dove sono presenti 18 confessioni e fedi diverse, accanto alla Consulta del libero pensiero e per la laicità delle istituzioni. Senz’altro per questo la comunità straniera in questo momento più sotto pressione come quella cinese, si rivolge al suo Sindaco invece di reagire d’istinto e in modo emotivo contro le autorità e non ha bisogno come a Milano di scrivere sui cartelli "siamo romani anche noi", perché di Roma sa già di far parte. In una città con questo spirito suona comprensibile il monito del Ministro degli Interni Giuliano Amato, che giudica il fatto di Milano "un problema culturale, guai a scambiarlo per altro" e si può accogliere con la giusta consapevolezza il suo successivo invito "ma è pur sempre un problema e come tale bisogna vederlo".

I cinesi e la Capitale
A Roma vi sono 235.708 cittadini immigrati iscritti all’anagrafe, su questi (al 1 gennaio 2005) solo 7.300 sono di nazionalità cinese. I cinesi romani rappresentano una comunità in corso di forte rinnovo: secondo il censimento del 2001, il 73% dei cinesi ha meno di 40 anni e addirittura il 32% non ha ancora compiuto 21 anni. All’inizio del 2005 il 55% di loro era coniugato, quindi con famiglia.

Entriamo ancora di più nella città: i cinesi con meno di 40 anni all’inizio del 2005 sono ben il 70% e le famiglie nelle quali nascono i nuovi romani con gli occhi a mandorla si distribuiscono in tutta la città: in 7 municipi su 19 i nati cinesi sono tra le prime tre nazionalità straniere. Più precisamente, nel XII municipio rappresentano il 6% dei nati, nel V l’8% e nell’XI il 10% ma nel IX municipio tra i nuovi nati quelli cinesi salgono al 14%, nell’VIII al 22% e nel VI arrivano addirittura al 30%. Nel I municipio, quello dell’Esquilino, contrariamente a quanto comunemente si pensa, la natalità cinese si ferma al 18,5%.

Il rapporto fra cinesi e città a Roma è strutturalmente diverso da quello di Milano: i dati indicano che in questa città non esiste una China Town, e se questo è l’andamento delle nascite non l’avrà per fortuna neanche in futuro. Roma ha invece molti giovani cinesi e con questo andamento ne avrà sempre di più. La risposta di dialogo del Sindaco può contare anche su questa risorsa.

Rompere il ghiaccio
Nuovamente prendo a prestito un’immagine del Ministro Amato: "in effetti questi giovani che tentano di aprire le proprie comunità, sono degli autentici rompighiaccio … e quando serve il rompighiaccio è perché c’è appunto del ghiaccio". E’ vero ministro, sono tanto d’accordo con lei che giro l’osservazione al Sindaco di Roma. Sindaco Veltroni, ha mai visto le navi prigioniere nel ghiaccio liberarsi da sole? Appunto a questo servono i rompighiaccio, a rompere dal di fuori la crosta isolante.

Usiamo ancora il cosiddetto modello Roma, signor Sindaco, quell’idea di città da condividere e nei confronti della quale usare concertazione e responsabilizzazione. Si sieda con il Presidente della Consulta e con gli altri rappresentanti cinesi attorno ad un tavolo con la fiducia di riuscire reciprocamente a capirsi. Questo è un atteggiamento necessario, perché abbiamo la stessa esperienza personale del Ministro Amato, secondo cui questi nostri concittadini hanno "modi di pensare certo molto diversi. Ho visto persone sull’orlo di una crisi di nervi condurre trattative usando il nostro linguaggio e approccio, che non riusciva a passare".

Cominciando noi a rompere la crosta di ghiaccio, probabilmente riusciremo a convenire che le regole non servono necessariamente a discriminare e che l’applicazione delle norme è una cosa, la discrezionalità è un’altra. Magari riusciremo anche a scoprire dove fanno i funerali ai concittadini che, purtroppo, come tutti, muoiono oppure a far capire loro che il fatto di avere inserito la contraffazione commerciale e l’evasione ai diritti d’autore fra le cause ostative al permesso di soggiorno non è casuale.

"Quella cinese è una comunità chiusa, con cui è difficile dialogare" ha detto Amato. Ma su questo stavolta credo che a Roma possiamo non essere d’accordo: il dialogo l’hanno chiesto loro.

(16 aprile 2007)

 

Claudio Rossi
sociologo

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