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L’Economist: “I network degli immigrati stanno cambiando l’economia mondiale”

Gli atteggiamenti illiberali nei confronti delle migrazioni non sono nuovi, ma questa volta, suggerisce l’Economist, gli stati dovrebbero considerare l’immensa opportunità economica che rappresentano le diaspore.

 

ROMA, 21 novembre 2011 – Gli stati dovrebbero considerare l’immensa opportunità economica che rappresentano le diaspore. La riduzione dei costi per i viaggi e la facilità con cui attraverso le nuove tecnologie si può restare in contatto con i paesi di origine, oltre ad aver incentivato le partenze, ha permesso di rafforzare la rete delle comunicazione tra le comunità di emigrati fornendo una spinta eccezionale alla creazione di nuova ricchezza nei paesi occidentali.

Lo scrive l’Economist, che ha dedicato la copertina dell’ultimo numero all’immigrazione.

L’ANALISI
I cinesi che vivono al di fuori della Cina – evidenza L’Economist –  sono molto di più dei i francesi che vivono in Francia. Gli indiani sparsi per i cinque continenti (o quattro, sei, sette a seconda di come vogliate intenderla) sono circa 22 milioni. Si calcola che in totale ci siano nel mondo 215 milioni di immigrati di prima generazione, il 3% della popolazione mondiale.

Sebbene quello delle migrazioni sia un fenomeno in crescita, questo non è un buon momento per vivere fuori dalla propria nazione, scrive l’Economist. La Gran Bretagna sta per rivedere in senso restrittivo le regole per i controlli dei passaporti alla frontiera, negli Stati Uniti, Barack Obama non è riuscito a presentare, come promesso una riforma sull’immigrazione, mentre i candidati repubblicani alle primarie per le presidenziali suggeriscono di elettrificare i confini con il Messico. In Italia, con la Lega Nord al governo fino a qualche giorno fa, sappiamo bene com’è andata.

L’ostilità contro gli stranieri – spiega l’Economist –  è basata di solito su due (tra loro incompatibili) nozioni: la prima è quella legata alla richiesta da parte deli immgirati del sostegno statale (un salasso per le finanze pubbliche). Ma anche perchè sono pronti a lavorare di più per meno soldi portando all’abbassamento dei salari delle persone meno abbienti.
La prima cosa di solito non è vera (in Gran Bretagna, per esempio, gli immigrati richiedono meno benefici degli inglesi), la seconda è invece difficile da stabilire. Alcuni studi dicono che la concorrenza da parte degli immigrati non qualificati abbassa i salari dei lavoratori non specializzati (inglesi), ma in molti credono che tali studi siano difficilmente verificabili.

CONCLUSIONI

Gli atteggiamenti illiberali nei confronti delle migrazioni non sono nuovi – spiega L’Economist –  anzi si ripetono ciclicamente in occasione delle depressioni economiche con la pressione che aumenta sulle frontiere dei paesi ricchi ma questa volta, suggerisce l’Economist, gli stati dovrebbero considerare l’immensa opportunità economica che rappresentano le diaspore.
Un commerciante cinese in Indonesia, ad esempio – prosegue il settimanale inglese – se riscontra una lacuna nel mercato degli ombrelli a buon mercato avviserà suo cugino  a Shenzhen che conosce qualcuno che dirige una fabbrica di ombrelli. I legami di parentela favoriscono la fiducia e accelerano i tempi per concludere gli accordi. La fiducia inoltre è un fattore fondamentale nei mercati emergenti dove lo stato di diritto è più debole. Non è un caso che ancora oggi la maggior parte degli investimenti esteri cinesi passa attraverso la rete di relazioni costruita dagli immigrati.

 

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