Un robot, tre navi e i sommozzatori della Marina Militare impiegati nel canale di Sicilia. Morirono almeno 700 persone, Renzi: “Non possiamo lasciarli sott’acqua”
Roma – 30 giugno 2015 – Il 18 aprile scorso, a 85 miglia dalla costa della Libia, un peschereccio carico di profughi e migranti diretti in Italia, soprattutto eritrei, si capovolse durante i soccorsi. Morirono tra le 700 e le 900 persone in una delle più grandi tragedie dell’immigrazione nel Mediterraneo.
Ieri nello specchio di mare dove è avvenuta tragedia è iniziato il recupero dei corpi delle vittime, adagiati sul fondo a 370 metri di profondità. Le operazioni sono condotte dalla Marina Militare Italiana, con il cacciamine Gaeta, le navi Leonardo e Gorgona e il Gruppo Operativo Subacquei (G.O.S.) di Comsubin.
A scendere sott’acqua è un robot, Pegaso, comandato a distanza. Ha telecamere e sonar e, quando individua un corpo, lo afferra con le sue braccia meccaniche e lo porta in superficie. Ieri ha recuperato così tre salme.
L’operazione prevede innanzitutto il recupero dei corpi che si trovano intorno al relitto e sui ponti. Poi si cercherà di entrare nel peschereccio (molte vittime erano chiuse nella stiva al momento del naufragio) o di riportarlo tutto a galla.
“L'Europa – disse il premier Renzi quando annunciò il recupero dei corpi – non si può permettere di tenere a 400 metri di profondità i cadaveri di nostri fratelli. Tireremo su quel barcone, perché su questo problema non possiamo chiudere gli occhi".
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