Roma – 13 novembre 2014- "Portano l’Ebola". "Stop all’invasione". "Aiutiamoli a casa loro". Allarmi, slogan e stumentalizzazioni politiche che hanno accompagnato l'arrivo, nell'ultimo anno, di 150mila migranti e rifugiati nelle coste del Sud Italia.
I dati e le testimonianze raccolti sul terreno da Medici per i Diritti Umani (MEDU) descrivono però una realtà molto diversa e ben più complessa: storie drammatiche di persone sopravvissute a una violenza indicibile e i cui diritti più elementari spesso non vengono ancora riconosciuti, una volta attraversato il Mediterraneo, sul suolo italiano ed europeo.
Roma insieme a Milano rappresenta la principale tappa nella penisola per le migliaia di profughi diretti verso i paesi dell’Europa del Nord. Sono 258, tra cui 34 donne e 45 minori, i migranti forzati provenienti dal Corno d’Africa che hanno ricevuto assistenza medica dalla clinica mobile di MEDU nel periodo giugno-ottobre 2014 in baraccopoli ed insediamenti precari di Roma.
Tutti hanno attraversato il Sahara, si sono imbarcati in Libia e hanno subito qualche forma di grave deprivazione o violenza nei paesi di transito. Tra di loro nessuna epidemia legata a temibili malattie infettive d’importazione quanto piuttosto patologie legate, oltre che alle violenze subite, alle pessime condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere durante il viaggio e nel nostro paese.
MEDU chiede alle istituzioni che "nella capitale d’Italia vengano garantite adeguate misure di accoglienza ai migranti che raggiungono l’Europa via mare, con particolare riguardo ai gruppi più vulnerabili".
"Con la chiusura dell’operazione Mare Nostrum – si legge in n comunicato – rischia di aggravarsi ulteriormente la situazione umanitaria nel Canale di Sicilia con un ulteriore aumento delle vittime del mare. L’Italia, l’Unione europea e la comunità internazionale sono chiamate sia ad assicurare efficaci operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo sia ad adottare misure che consentano a chi fugge da guerre e persecuzioni la possibilità di accedere alla protezione internazionale senza rischiare costantemente la propria vita".