Roma – 2 ottobre 2014 – I naufragi del 3 e 11 ottobre 2013 davanti a Lampedusa hanno restituito centottantadue corpi ancora non identificati. A un anno di distanza, si cerca di dare un nome ai morti e un pietra su cui piangere ai loro familiari.
Decine di persone, soprattutto rifugiati residenti ora nei paesi dell'Europa settentrionale e centrale, stanno arrivando in Italia per ritrovare figli, fratelli e sorelle inghiottiti dal mare. Sono state contattate dal 'Comitato 3 ottobre', che sta collaborando con il ministero dell'interno in questa operazione e contribuisce all'accoglienza e alle spese per gli eventuali esami del dna.
Ai familiari, assistiti da psicologi e mediatori culturali, la polizia mostra le foto scattate dalla scientifica quando sono stati ritrovati i corpi. Migliaia di immagini dei morti, ma anche dei loro vestiti e di quello che avevano nelle tasche: elementi che potrebbe essere utili a capire chi erano.
“Con metodologie scientifiche appropriate applicate ai diversi casi -attraverso l'analisi di segni, impronte dentali ma a volte anche tatuaggi- si procede a un sospetto di identità. Si approfondisce quindi il caso con altre metodologie e ricerche, fino al tampone boccale e al Dna" spiega Vittorio Piscitelli, commissario straordinario del governo per le persone scomparse.
“È un fatto di polizia – sottolinea il prefetto – ma anche di umanità. Gli psicologi aiutano le famiglie ad affrontare la prova, perché riconoscere un proprio familiare da una foto e da altri dati, è un'operazione delicata".
Quando si arriva all'identificazione, i familiari possono finalmente andare nel cimitero dove è sepolto il loro caro, in pellegrinaggio sulla tomba che non ha più un numero, ma un nome.