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Un permesso a punti per i leghisti

Le camicie verdi hanno un problema di integrazione. Andrebbero rimpiazzate con dei veri italiani Roma – 29 marzo 2011 – I 150 anni dell’Italia stanno così a cuore ai leghisti che si fanno venire la tachicardia al pensiero che il Paese è unito dalle Alpi a Lampedusa. Non è che non festeggiano, però come Nanni Moretti si chiedono: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” e alla fine decidono di non partecipare.

È successo anche stamattina, quando la riunione del consiglio regionale Lombardo si è aperta con l’inno di Mameli. Al Pirellone suonava “Fratelli d’Italia”, ma il Trota e gli altri consiglieri del  Carroccio se ne sono rimasti al bar, a celebrare il made in Italy del cappuccino. Gli unici leghisti in Aula erano il presidente del consiglio Davide Boni, un po’ meno leghista per il suo ruolo istituzionale, e Giangiacomo Longoni, che forse ci sente poco e ha continuato, seduto, a leggere il giornale.

Scherzi a parte, qui c’è un problema serio di integrazione. Cosa bisogna fare per far diventare un pochino italiani i leghisti?  Forse è troppo chiedere loro di studiarsi il Risorgimento, storia di tanti settentrionali che fecero l’ Italia. E magari non hanno nemmeno voglia di leggersi la Costituzione, quella roba che promette asilo ai profughi o che descrive il tricolore che  Bossi consigliava di gettare nel cesso.

Ma almeno un segno di buon volontà dovrebbero darlo. Imparino a memoria e intonino la prima strofa dell’inno nazionale e guadagneranno un permesso di soggiorno a punti, lo stesso che Maroni vuole imporre agli immigrati: un punto per ogni verso imparato e il premio raddoppia se non stonano. Per chi non ce la fa, nessuna espulsione (dove li mandi?), ma ripetizioni obbligatorie:  “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…”

Intanto, conviene trovare subito dei nuovi, veri italiani, almeno per rimpiazzare i posti lasciati liberi dalle camicie verdi. La ricerca è semplice, sono già tutti qui, un milione di ragazzi nati e cresciuti in Italia, figli di immigrati che, di immigrato, hanno solo il permesso di soggiorno. Ragazzi e ragazze pazienti e dalle spalle larghe, tanto da sopportare finora l’accanimento con cui la legge sulla cittadinanza continua a definirli stranieri.

Loro l’inno lo conoscono e lo cantano, tifano per l’Italia, sono intimamente italiani, ogni giorno vivono e parlano da milanesi, romani e napoletani. Oltre a patire gli affanni di tutti i loro giovani coetanei, devono però anche sentirsi sempre con una valigia in mano, considerati dal loro Paese come ospiti di passaggio, pronti a tornare in paesi che magari non hanno mai nemmeno visitato.

In tempi che ormai sembrano lontani, non sembrava impossibile una riforma scritta da tutto il Parlamento per riconoscere la cittadinanza italiana alle seconde generazioni. Ma la Lega Nord si è messa sempre e caparbiamente di traverso, e si è portata dietro anche quella parte della maggioranza che teme di regalare voti al Carroccio se non fa sempre la voce grossa su tutto ciò che fa rima con la parola immigrazione.

Mettiamoli però per una volta accanto, i leghisti e i figli degli immigrati. Cosa pensano, cosa dicono, cosa fanno? È davvero così difficile capire quali sono i veri italiani?

Elvio Pasca

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