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Va di moda la dis-integrazione

L’intervento di Corrado Giustiniani,  giornalista del Messaggero e titolare del blog I Nuovi Italiani, al convegno "Siamo tutti elettori europei"

26 gennaio 2009 – Finalmente un incontro che non esplora il sesso degli angeli, che non si annuncia con un titolo così vasto e vago da consentire a ciascuno, come spesso accade, di dire “la qualunque” guadagnandosi l’applausetto che non si rifiuta mai. Agganciato, invece, a un problema circoscritto e concreto: il diritto di voto alle elezioni locali e a quelle europee dei cittadini di un altro paese della Comunità europea residenti in Italia, sancito da un decreto legislativo del 1996, ma tutt’oggi assai difficile da esercitare. Se ci pensate bene, è pazzesco che a quasi 13 anni dalla norma nazionale e a 19 dal Trattato di Maastricht, che ha fissato il principio per tutti i comunitari che vivono nell’Unione in un paese diverso dal loro, noi stiamo ancora discutendo di come raggiungere pienamente lo scopo. Nel 2002 feci un viaggio di lavoro in Germania, per scoprire che in quel paese c’erano già allora 100 consiglieri comunali italiani, eletti proprio in base a quelle norme. Ho assistito di persona, a Berlino, a un brindisi indetto in loro onore dall’ambasciata italiana.

Da noi questa possibilità non soltanto è poco conosciuta dai comunitari residenti ma, almeno fino a pochissimi anni fa, dalla stessa classe politica italiana. Ricordo una mia discussione con un personaggio che pure aveva incarichi di governo, che negava che i comunitari potessero votare. Tanto che, nel 2004, scrissi un lungo articolo sul mio giornale, corredato da una tabella che documentava quanti francesi, tedeschi o spagnoli d’Italia avevano votato nelle varie tornate elettorali amministrative. Diritto oggi esteso a polacchi, romeni, bulgari, ungheresi e quant’altri. Ben vengano, dunque, le campagne d’informazione televisiva che sono state proposte in questo convegno. Deve essere soprattutto la tv pubblica a muoversi, in armonia con la sua missione informativa. Ma non c’è nemmeno un giorno da perdere: le liste aggiuntive alle quali i cittadini comunitari residenti in Italia debbono iscriversi, per partecipare al voto, si chiudono il 5 marzo, tre mesi prima del voto, e nessuno, fuori di qui, sembra saperlo.

L’integrazione è un valore che tutti i paesi europei perseguono, siano essi retti da governi di destra oppure di sinistra. In Italia, invece, e lo dico con amara ironia, l’ultimo urlo della moda sembra la dis-integrazione e, paradossalmente, sono gli immigrati regolari ad essere nel mirino. Cercherò di dimostralo, in cinque punti.

Primo. Per favorire le politiche di integrazione in tutti i paesi sono previsti fondi speciali. Il fondo per l’integrazione della Spagna, che oggi contende all’Italia il primato della dinamica immigratoria, è dotato di ben 300 milioni di euro. Quello della Germania ha una dotazione assai più ricca: 750 milioni di euro. Questo paese, vale la pena di ricordarlo, offre agli stranieri 300 ore di insegnamento gratuito della lingua tedesca. E l’Italia? Il Fondo in teoria c’è, ma molto più limitato: 100 milioni di euro, a fronte di 4 milioni di stranieri regolarmente residenti. Un terzo, dunque, rispetto a quello spagnolo e meno di un settimo di quello tedesco. Ma soltanto in teoria, il Fondo c’è. Perché la Caritas ha scoperto, in occasione dell’ultimo Dossier statistico sull’immigrazione, che i soldi di cui dovrebbe essere dotato sono spariti. Dentro, infatti, sarebbero rimasti appena 5 milioni di euro. Senza soldi non si fa integrazione, e soltanto questo dato dovrebbe tagliare la testa al toro.

Secondo: i flussi sono bloccati, e dunque non c’è alcuna possibilità di portare lavoratori attualmente irregolari ad ottenere il permesso di soggiorno. Come si sa, l’ultimo decreto flussi da 150 mila ingressi, varato poche settimane fa dal governo, è una sorta di concorso interno, riservato interamente ad accontentare le domande già presentate nel 2007, e anzi insufficiente ad accoglierle. Nel 2007, infatti, sono arrivate in tutto 740 mila richieste di assunzione di lavoratori stranieri. Tra questo decreto, e quello del governo Prodi, gli ingressi possibili erano 320 mila. Scartando le domande prive di requisiti, quelle a cui dare risposta vengono stimate in 480 mila. Rimarranno forzatamente clandestini, dunque, circa 140 mila lavoratori che da tempo sono già in Italia. Finiamola con questa ipocrisia: non si assume quasi mai direttamente dall’estero, a scatola chiusa. Fammi prima vedere chi sei e come lavori, per guadagnarti il posto. Per di più il concorso interno riguarda le domande presentate fino a maggio del 2008. E le decine di migliaia di lavoratori entrati dopo? Per loro non c’è risposta, allargano le schiere dell’esercito dei clandestini.

Terzo. Contro gli stranieri regolari pende l’iniquo balzello sul permesso di soggiorno e il suo rinnovo che, l’articolo 39 del disegno di legge sulla sicurezza fissa per il momento in 200 euro. Iniquo per almeno tre ragioni: perché già oggi per rilascio e rinnovo gli stranieri sborsano 72 euro, secondo, perché non è questo il momento di inasprire le imposte per una delle categorie a reddito meno elevato, considerando poi che l’esborso è esteso anche al permesso dei familiari. Terzo, perché il contributo ha senso in funzione del servizio erogato, efficiente in tutti gli altri paesi. Ma da noi, mentre l’articolo 5 del Testo unico sull’immigrazione prevede che il permesso sia rilasciato o rinnovato entro 20 giorni dalla data della domanda, i tempi di attesa reali oscillano da 6 mesi a un anno. Se una tassa, non certo di quell’importo, venisse presentata in contemporanea con un taglio della procedura burocratica o con un allungamento della durata dei permessi di soggiorno, ritenuto necessario dallo stesso responsabile immigrazione del ministero dell’Interno, il prefetto Mario Morcone, l’operazione avrebbe almeno la sua foglia di fico. Ma così, è scandalosamente e sconsolatamente scoperta.

Quarto, il permesso di soggiorno a punti. Altro sgambetto operato contro gli stranieri regolari. L’articolo 41 del ddl sulla sicurezza, che l’aula deve ancora votare, lo chiama “accordo di integrazione”e lo pone come condizione necessaria per rilasciare e rinnovare il permesso. Un lavoratore regolare avrebbe all’inizio una serie di crediti, persi i quali dovrebbe lasciare l’Italia. Una volta approvata la legge, verranno dati sei mesi di tempo alla nostra burocrazia, che avrebbe ben altro a cui pensare, per arrovellarsi sul come possano essere persi i crediti. Calpestando un’aiuola, facendo schiamazzi notturni o violando l’obbligo di prestare lavoro volontario e gratuito nel tempo libero? Sicuramente verranno imposti esami di italiano, ma senza le 300 ore gratuite, come avviene in Germania, e sicuramente ci sarà un mercato delle promozioni. Insomma, essere regolari diventerà più complicato. A proposito di italiano: un altro emendamento da votare in aula rende necessario il superamento della prova di lingua per ottenere la carta di soggiorno, e cioé il permesso permanente: ma questa è gente che lavora regolarmente con noi da almeno cinque anni, sa già un italiano più che sufficiente: perché questa nuova complicazione? Un esame di lingua, serio e selettivo, andrebbe imposto soltanto a chi intende ottenere la cittadinanza del nostro paese.

Quinto. Rema contro l’integrazione la mozione della Lega, che vorrebbe introdurre classi parallele e differenziali, più pudicamente definite classi-ponte e d’inserimento. Il tempo stringe e non posso dilungarmi troppo. Dico solo che è semplicemente inattuabile. Se nella scuola di un paese di 5 mila anime si presentano all’inizio dell’anno scolastico tre nuovi bambini, di diversa età e nazionalità, un romeno di nove che imparerà presto l’italiano, un cinese di dieci che ha più difficoltà, un peruviano di sette, li si mette nella stessa classe? Con quale spreco di soldi e di docenti, per ottenere un risulato certo deludente?
 
Condivido, invece, la proposta di non ammettere a scuola alunni che si presentino dopo il 31 gennaio (ma deve valere anche per gli italiani). Per il resto gli stranieri, soprattutto se bambini, imparano la lingua in modo assai veloce, socializzando con il gruppo italiano dei pari. Si spendano le risorse che già oggi il ministero ha a disposizione, per intensificare l’insegnamento della lingua nel doposcuola, o in corsi propedeutici da organizzare prima dell’inizio dell’anno scolastico. Ma non strappiamo via questi ragazzi stranieri dai loro compagni italiani, non isoliamoli in classi-ghetto. Un giorno ce ne potremmo pentire amaramente.

Corrado Giustiniani

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