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Marco Wu, ambasciatore del gusto tra Italia e Cina

Il giovane imprenditore romano gestisce un ristorante multietnico e un’enoteca con sedi a Piazza Vittorio e Shanghai. “La cittadinanza non basta per abbattere i pregiudizi”

Roma – 28 marzo 2013 – Marco Wu ha solo 28 anni ed è già titolare di due attività, un ristorante molto particolare e un’enoteca.

“Sono nato a Livorno, dove la mia famiglia aveva un ristorante, ma io mi sento romano. Ci siamo trasferiti a Roma quando avevo solo 5 anni. Dopo il diploma in tecnico del turismo, ho frequentato la facoltà di economia, ma poi ho capito che non faceva per me e mi sono concentrato sul lavoro. Ho iniziato a dare una mano nelle attività di famiglia da quando avevo diciotto anni, apprendevo e seguivo i consigli di mio padre, finché circa due anni fa sono diventato titolare e socio della mia prima attività, un ristorante”.

“Facciamo sia cucina cinese che italiana e da poco abbiamo anche aggiunto la pizzeria. Si può definire un ristorante multietnico, non solo per il menu, ma anche per il personale che ci lavora, abbiamo dipendenti rumeni, cinesi, italiani, tunisini e la cucina è una vera palestra di convivenza. Non è semplicissimo far conciliare i cuochi di diverse nazionalità, hanno modi di lavorare differenti e ogni tanto devo anche svolgere il ruolo da mediatore. I cuochi cinesi sono molto chiusi e preferiscono non chiedere l’aiuto di nessuno, mentre i cuochi italiani sono più aperti e cercano di coinvolgere gli altri, ma credo che anche gli italiani a modo loro sono chiusi”.

“Ho avuto l’occasione di vivere a New York per sei mesi, per imparare l’inglese e mi sono accorto che anche gli italiani all’estero stanno sempre tra di loro e sono molto chiusi. In quella situazione ero in un territorio neutro, né in Cina, né in Italia, ma c’erano ragazzi di entrambe le nazionalità e li frequentavo tutti e due. Mi sono sentito fortunato e ho capito il valore di appartenere a due culture, anche se la mia parte italiana prevaleva su quella cinese”.   

“Tradizionalmente le attività di famiglia hanno sempre importato prodotti cinesi in Italia, ma per una volta ho provato a fare l’inverso. Ho scelto di puntare sul vino e ho aperto un enoteca in centro a Roma. C’è una vasta clientela in Cina che richiede prodotti di alta qualità che li non trovano, è per questo che abbiamo aperto una sede anche a Shanghai. Il cinese è un bevitore, ma non un intenditore, il nostro obiettivo è insegnare ad apprezzare un buon vino. E devo dire che sta diventando anche una mia passione”.

“Il mio rapporto con la Cina è buono, ci vado circa 2 volta l’anno, principalmente per lavoro, anche se la frequento poco, il mio rapporto con la comunità qui a Roma è buono, ma loro mi vedono sempre come “l'italiano”. Il mio cinese non è ottimo e da quando ero piccolo ho sempre avuto amici italiani e diciamo che, in generale, questa è una tendenza che riscontro molto tra i miei coetanei, mentre i ragazzi più piccoli c’è una tendenza inversa, sono più “cinesi” di me. Probabilmente oggi ci sono più modi per mantenere un forte legame con la Cina rispetto a quando ero piccolo io. La comunità si è allargata e non tutti i cinesi vedono il loro futuro in Italia. Io mi sento italiano e il mio futuro continuo a vederlo qui, crisi permettendo”.

“Ho ottenuto la cittadinanza italiana quando ero piccolo attraverso i mie genitori. Solo quando sono cresciuto mi sono accorto della fortuna che avevo avuto, rispetto a i miei amici, che dovevano rinnovare il permesso di soggiorno o tutta la burocrazia che hanno dovuto affrontare per ottenere la cittadinanza. Purtroppo la cittadinanza non è sufficiente per abbattere i pregiudizi, anche se sei italiano per legge non è detto che lo sei socialmente. Spero che le cose cambino e che le persone vadano oltre all’apparenza”.

Samia Oursana
 

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