di Carlo Flamment (Presidente del Formez).
(Testo dell’intervento al convegno "Migrazione legale e coesione sociale" Rimini, 5 giugno 2008)
L’Europa soffre di squilibrio demografico, i dati recenti indicano che anche prevedendo un’immigrazione di 40 milioni di persone, nel 2050 la popolazione europea totale diminuirà di 7 milioni di persone ma soprattutto diminuirà di 52 milioni di persone in età da lavoro. In questo trend, secondo il Dossier Statistico Immigrazione, l’Italia si colloca ai vertici europei per numero di immigrati e al vertice mondiale, tra i paesi industrializzati, per ritmo d’aumento.
Ciò significa che centinaia e centinaia di migliaia di immigrati l’anno continueranno ad entrare nel nostro Paese e se questo, da una parte, ci tornerà utile (che degli immigrati abbiamo bisogno ormai è noto a tutti), dall’altra provocherà inevitabili tensioni nella nostra coesione sociale. Attenzione, le tensioni sociali già esistono, ne leggiamo tutti i giorni sui giornali ma, riferite all’immigrazione,non riguardano un fenomeno che oggi c’è ma domani potrà non esserci. La tensione operata dall’immigrazione sulla coesione sociale interna da oggi in poi ci accompagnerà sempre, perciò preoccuparsi della relazione tra immigrazione e coesione sociale vuol dire discutere sulle politiche del futuro, prossimo e meno prossimo.
Ma perché questo “deve” succedere? Quando un flusso di migranti entra in una società preesistente, che ha già le proprie ragioni di stare insieme e le proprie regole comunitarie necessariamente diverse da quelle degli stranieri che desiderano stabilirsi nella società, provoca una naturale reazione di adattamento necessaria a riacquistare l’equilibrio perduto. Equilibrio che dipende dalle modalità con le quali la società preesistente decide di gestire l’inserimento, lo stabilimento e l’integrazione nella propria cittadinanza degli stranieri.
Ecco perché, nell’attuale epoca, l’immigrazione in quanto tale è un fattore strutturale di instabilità (continuamente vi sono stranieri che entrano) e perché è la qualità della politica dell’integrazione e non le condizioni degli immigrati a determinare quantità e qualità della coesione sociale (è la società preesistente che definisce qual è l’equilibrio da raggiungere).
Una cosa la storia dell’immigrazione contemporanea ce l’ha insegnata: a migrare non sono solo braccia o cervelli ma sono uomini, milioni di utilissimi, interessantissimi, complessissimi esseri umani. Perciò è ovvio che quando parliamo di gestione, di politica dell’immigrazione parliamo di tutti gli aspetti della vita di ciascuno, come persona è naturale, come lavoratore senza dubbio, come produttore anche, come cittadino per forza e via dicendo. Non per niente oggi in Europa è diventata di moda l’espressione “approccio olistico”, perciò complessivo, completo e unitario.
Perciò adottare una buona politica di gestione dell’immigrazione non può non voler dire occuparsi di come lo straniero possa partecipare attivamente alla vita ordinaria e straordinaria della società di cui vuol fare parte: partecipare alla sua ricchezza, lavorando, producendo, consumando, investendo denaro, saperi e conoscenze; partecipare alle decisioni che regolano la società, dal comitato di quartiere al voto amministrativo, all’attività sindacale, alla rappresentanze imprenditoriali; partecipare alla crescita culturale, potendo applicare le proprie conoscenze intellettuali e tecnologiche, così come le originali capacità artistiche e via di questo passo fino a partecipare al futuro della società offrendo ad essa famiglia e figli.
Integrarsi significa percorrere queste strade e ogni strada è un’occasione che mette alla prova la coesione sociale, perciò ognuna di esse è un parametro di coesione sociale. Ecco perché il rapporto tra immigrazione e coesione sociale passa da come la politica interviene sul “prevedere e regolare” la partecipazione complessiva, intera degli stranieri alla vita della comunità italiana. A vedere le cose da qui, “sicurezza” è solo uno dei tanti aspetti da utilizzare ed è evidente che, come per tutti gli altri aspetti, godrà di più efficacia, quanto più sarà accompagnata dalle altre politiche.
D’altra parte per capire quanta verità vi è in questa considerazione basta guardare la P.A.. Prima di tutto quella territoriale, che ci è più vicina: anni fa l’impatto dello straniero si limitava alle anagrafi e tutt’al più agli uffici di stato civile, poi dagli anni ’90 in poi gli stranieri hanno cominciato ad affollare i servizi sociali, oggi non vi è ufficio comunale dove nella sua attività ordinaria si possa vedere uno straniero, magari per una licenza edilizia, una pratica commerciale, l’apertura di un’impresa, l’iscrizione dei figli all’asilo nido. Questa situazione sta di conseguenza influenzando anche i processi di formazione del personale, professionale e continua. Esperienze pilota condotte in questi ultimi anni da grandi e piccoli comuni hanno confermato la nuova e urgente esigenza.
Se poi guardiamo al resto della pubblica amministrazione la trasversalità della politica di integrazione degli immigrati si conferma nelle dimensioni più ampie, sia nella molteplicità dei luoghi dove avviene una relazione, sia nella molteplicità delle competenze di cui la P.A. ha necessità di usufruire per erogare la prestazione.
Un recente lavoro sui numerosi rapporti che intercorrono tra le amministrazioni pubbliche e gli stranieri immigrati, svolto attraverso un’analisi degli Uffici ministeriali e regionali, oltre che provinciali e comunali, ha prodotto un lungo elenco di “punti di contatto”:
– Ministero degli Esteri (Rappresentanze diplomatiche e consolari): nella maggior parte dei casi il primo punto d’incontro tra gli stranieri e l’Italia.
– Ministero dell’Interno, compresi gli Uffici Territoriali del Governo (ex Prefetture) e le Questure: prestazioni dedicate e sportelli ad hoc per gli stranieri, oltre numerose attività da parte di apposite Direzioni, Dipartimenti e Commissioni.
– Ministero del Welfare: determinazione delle quote dei flussi migratori, normativa sul lavoro del Dipartimento Provinciale del Lavoro, interventi di inserimento sociale svolti dalla Direzione Generale per l’Immigrazione e dal Servizio Extracomunitari.
– Ai ministeri si affiancano poi in materia di lavoro l’INPS, l’INAIL, le Camere di Commercio e l’Ufficio delle Entrate.
– Ministero della sanità, Regioni e Aziende sanitarie: oltre agli inevitabili rapporti con la popolazione immigrata in tema di salute e cura, sono competenti nel riconoscimento dei titoli di studio e nell’abilitazione all’esercizio professionale.
La crescente autonomia regionale e locale ha spinto le amministrazioni pubbliche ad organizzarsi discrezionalmente nel tentativo di prestare sempre più attenzione ai servizi di cui necessitano gli stranieri. Solo qualche esempio: nella Regione Toscana la Provincia di Prato ha istituito l’Osservatorio provinciale sull’immigrazione; la Provincia di Firenze promuove iniziative di insegnamento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche sui temi dell’immigrazione o si sta attrezzando per consentire agli stranieri di accedere ad alcuni servizi pubblici direttamente via web.
Le conclusioni di questo ragionamento su immigrazione e coesione sociale possono essere diverse ma una in particolare non deve essere trascurata: la coesione sociale è funzione della politica di integrazione degli stranieri che la società italiana riesce a predisporre e adottare concretamente. In questo la P.A. costituisce uno snodo e un attore importante e indispensabile, tanto che possiamo affermare che la qualità del risultato dalla P.A. finisce per influenzare notevolmente la qualità della coesione sociale presente e futura del nostro Paese. Per questa ragione una buona politica dell’integrazione deve poter contenere la specifica e qualificata attività formativa sull’immigrazione e sull’integrazione in favore dell’intero complesso della P.A. nei suoi molteplici aspetti.
Carlo Flamment (Presidente del Formez)