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L’immigrazione non si riforma a colpi di referendum

Le proposte dei Radicali sono importanti per sollecitare un dibattito, ma l'uso del referendum potrebbe rivelarsi controproducente. Sicuri che la gente firmerebbe l’abolizione dell’obbligo ad avere un lavoro per risiedere nel Bel Paese? O di imparare l’italiano o di far circolare liberamente decine di migliaia di irregolari?

Roma – 12 aprile 2013 – L’immigrazione è un tema molto complesso, che concerne 5 milioni di esseri umani provenienti da quasi  200 Paesi differenti, con lingue, culture, costumi, religioni ed aspirazioni articolate e che si presenta alla “governance” di qualsiasi Esecutivo come un insieme complesso e difficile da gestire, in quanto ricco di mille sfaccettature.

Dovrebbero saperlo bene i Governi ed i partiti che si sono succeduti sulla scena negli ultimi venti anni: le loro proposte e le loro normative si sono rivelate vane, quando non dannose alla trasformazione equilibrata di una società sempre più multietnica e culturale. Un fracasso soprattutto sul fronte del governo dei flussi d’ingresso che si proponevano di controllare e che hanno di invece degradato a flussi in entrata in  gran parte irregolari, con pesanti effetti in termine di dumping lavorativo e sociale. L’immigrazione, malgrado ciò, non è stata solo questo. E’ stata soprattutto una nuova chance di futuro per un’Italia in forte declino demografico, economico e valoriale. Una nuova ventata di ossigeno a un Paese in difficoltà, nonchè  un contributo sostanzioso traballante prodotto interno lordo nostrano.

Per questo motivo ho accolto con qualche riserva la notizia che il 10 aprile scorso, su iniziativa dei “Radicali italiani”, sono stati depositati  – assieme ad altri quattro – due quesiti referendari in materia di immigrazione. E questo, non certo perché in materia di legge Bossi – Fini le cose non vadano cambiate: anzi! Le ragioni di perplessità sono di metodo e di merito, pur nell’ambito di un atteggiamento da parte mia positivo verso iniziative capaci di dare una scossa all’immobilismo della politica italiana in una materia che, se non riformata, rischia di trasformarsi in una bomba a tempo.

Ma andiamo per ordine.

Il primo quesito riguarda l’abolizione, nell’ambito del Testo Unico sull’immigrazione, di parte del comma 5 dell’articolo 14, che riguarda la durata del trattenimento nei CIE degli stranieri presenti nel nostro Paese in forma irregolare. Tale norma del Testo Unico (che prevedeva inizialmente un trattenimento non superiore ai 30 giorni) è stata poi modificata dal cosiddetto pacchetto sicurezza che aveva portato a due mesi il tempo possibile di trattenimento degli immigrati irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione. Con l’entrata in vigore della direttiva europea sui rimpatri, attraverso il decreto – legge 23 giugno 2101, n. 89, la durata del trattenimento (in caso di impossibilità di identificazione od espulsione) è prorogabile fino a sei mesi, aumentabili di altri dodici: con il limite massimo di 18 mesi.

Il secondo quesito riguarda l’abolizione degli articoli 4 bis e 5 bis del  Testo Unico sull’immigrazione, il primo riguardante l’accordo di integrazione (diventato obbligatorio da marzo 2012) per i nuovi rilasci di permesso di soggiorno; il secondo articolo concernente il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”. Questa formulazione lega strettamente la presenza in Italia di un lavoratore straniero di Paese terzo all’esistenza di un contratto di lavoro subordinato, la garanzia del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio e il suo impegno al pagamento delle spese di viaggio per il rientro dello straniero, a lavoro terminato, nel Paese di provenienza.

Un primo giudizio a caldo è che certamente i temi sollevati dai Radicali Italiani sono pertinenti e che fanno centro su alcuni aspetti della normativa sull’immigrazione che andrebbero profondamente  riformati. Trattenere nei CIE, in condizioni di detenzione di fatto, esseri umani che non hanno commesso alcun delitto (tranne quello di immigrazione clandestina), solo per non essere in possesso di un permesso di soggiorno è certamente intollerabile.

Per quanto riguarda il contratto di integrazione, l’idea è certamente utile (apprendimento dell’italiano e delle norme di base di educazione civica) se applicata però con valenza positiva (premiare in più preparati). Al contrario la norma è stata immaginata ed applicata dal governo di centro destra  con carattere chiaramente punitivo nei confronti degli immigrati non diligenti (o impari o te ne vai!): uno dei tanti provvedimenti (assieme alle ronde, alle tasse sui permessi, al controllo sui money transfer, ai CIE) progettati con l’idea di rendere difficile, al limite dell’intollerabile, la presenza degli nel Belpaese.

Per quanto riguarda il contratto di soggiorno, lo stretto legame tra presenza in Italia e lavoro non solo non è servita a rendere fluido il meccanismo di matching tra domanda ed offerta di occupazione ma, al contrario, ha di fatto squilibrato il mercato della domanda ed offerta, producendo tali strettoie da rendere molto più conveniente l’ingresso irregolare e condizioni di tale soggezione al datore, da provocare gravi casi di dumping lavorativo e sociale, aggravatisi poi ulteriormente con la crisi economica, con eccessi vicini a forme di para –schiavismo.

E’ una impostazione che considera la condizione di straniero immutabile per decenni, a meno che uno non riesca ad ottenere la carta di soggiorno o la cittadinanza italiana. In teoria anche dopo vent’anni, un migrante che vive e lavora in Italia, se perde l’Impiego e non ne trova uno nuovo nei tempi previsti dalla legge (ora un anno) corre sempre il rischio dei CIE e dell’espulsione. Una normativa barbarica ed intollerabile. Ben venga, dunque, la cancellazione di queste norme.

Detto questo, però, uno deve fare un ragionamento di metodo e di merito e valutarne l’effettiva efficacia e produttività di quanto proposto.

Vediamo il primo quesito: il trattenimento nei CIE. L’allungamento a 18 mesi della detenzione nei Centri è la conseguenza dell’applicazione di una direttiva europea (la 2008/115/CE). Cancellare questa norma con un referendum non so nemmeno se sarà considerato ammissibile dalla Corte Costituzionale. In realtà è la correttezza dell’applicazione della direttiva che andrebbe verificata.

Infatti, il provvedimento di trattenimento nei CIE, secondo la direttiva 115, si deve utilizzare solo quando non sono “efficacemente applicabili altre misure meno coercitive” (ad esempio il ritorno volontario assistito). Esso, inoltre, deve avere una durata “quanto più breve possibile”. E’ dunque l’applicazione della direttiva che è avvenuta in maniera distorta da parte dell’Italia. Basterebbe applicare alla lettera il dettato europeo e forse la permanenza nei centri (tra l’altro costosissima)  avverrebbe molto più saltuariamente e per periodi più brevi.

Faccio anche notare che l’obbligo di chiedere al migrante irregolare l’opzione della non espulsione e del ritorno volontario, contrasta platealmente con il reato di immigrazione clandestina che disponeva l’immediata espulsione dell’irregolare (come del resto sancito già da molte sentenze). Sarebbe molto più produttivo a mio parere allora, chiedere un’applicazione rigorosa della direttiva sui rimpatri, invece che lavarsi le mani rinchiudendo chi non ha il permesso in strutture fatiscenti e lesive dell’umana dignità. Ed insieme, andrebbe anche chiesta l’abolizione di quell’obbrobrio giuridico costituito dal “reato di ingresso e soggiorno illegale” che criminalizza non il comportamento di un immigrato, ma il suo stesso status.

Per quanto riguarda il secondo quesito (contratto di integrazione e contratto di soggiorno). Al primo può essere data una valenza del tutto positiva (facilitazioni nel soggiorno per chi si dimostra maggiormente impegnato nell’apprendimento della nostra lingua e soprattutto nel rispetto delle nostre leggi). In effetti imparare l’italiano e le nostre norme civiche è fondamentale per lo straniero che progetti il proprio futuro nel nostro Paese. Quella che va cambiata è la valenza ricattatoria e punitiva della norma com’è ora formulata.

Per il contratto di soggiorno, non c’è dubbio che esso vada cambiato, ma non è sufficiente cancellarlo per legge. Assieme alla sua eliminazione va necessariamente riformulata l’intera normativa relativa all’ingresso e soggiorno per motivi di lavoro (prima si utilizzava lo sponsor). Oggi, con la crisi economica e il pratico fallimento dello strumento del decreto flussi – rivelatosi quasi completamente inefficace – l’intero meccanismo di incontro tra domanda ed offerta di lavoro va rivisto, considerando l’assenza cronica attuale di posti di lavoro e la necessità di attrarre non solo manodopera dequalificata.

C’è poi il problema del merito: l’uso dello strumento del referendum (tanto caro ai radicali) potrebbe rivelarsi inefficace e – al limite – controproducente. In materia di ingresso di stranieri, siete sicuri che la gente firmerebbe l’abolizione dell’obbligo ad avere un lavoro per risiedere nel Bel Paese? O di imparare l’italiano o di far circolare liberamente decine di migliaia di irregolari?

Non c’è dubbio che si tratta di temi su cui è facile (per una certa propaganda) fare appello alla pancia piuttosto che alla testa della gente.

Quello di cui c’è bisogno, a mio parere, è di un profondo ripensamento della tematica migratoria in Italia, considerando la crisi economica, il fatto che molti stranieri se ne stanno andando, ma anche le previsioni a medio termine, che debbono tener conto del persistente nostro gap demografico e della necessità di un apporto migratorio più qualificato, capace di produrre maggior spinta alla crescita economica. In pratica necessitiamo di una profonda riforma della normativa sull’immigrazione, e prima ancora necessitiamo di un’analisi più puntuale su cosa stia veramente accadendo in materia di immigrazione e di cambiamento multi etnico della nostra società.

Il mio modesto giudizio è che si tratti di una materia che non è emendabile a colpi di referendum. Nondimeno riconosco alle proposte dei Radicali il valore dell’impatto e di rimescolamento delle carte che esse possono avere nel dibattito politico e sociale. In questo senso credo sia giusto essere aperti al confronto e ad una possibile sintesi positiva.

Giuseppe Casucci
Coordinatore Nazionale Dipartimento Politiche Migratorie della UIL

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