Roma, 5 marzo 2015. Nei primi due mesi del 2015 ne sono sbarcati quasi 8 mila, il 43% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Quello scorso era già stato un anno da record, visto che il numero complessivo di sbarchi aveva toccato quota 170.757, oltre 4 volte gli arrivi complessivi del 2013 (41 mila) e 3 volte il 2011, l’anno delle cosiddette “primavere arabe”. Parliamo naturalmente dei rifugiati o di persone che necessitano comunque di protezione internazionale: donne, bambini e uomini che vengono dalla Siria, Iraq, dall’Eritrea, dall’Africa Sub –sahariana ed ultimamente anche dalla Libia. Fuggono da guerre o da persecuzioni e – naturalmente – anche da un futuro di miseria.
Cambiano i flussi in arrivo
E’ questo il nuovo volto che stanno assumendo i flussi migratori: composti sempre di più da disperati in fuga dalle guerre e che – dunque – debbono essere accolti, secondo la Convenzione di Ginevra ed il Regolamento di Dublino.
Il nuovo cambiamento di scenario è prodotto da due fattori principali tra loro concatenati: la crisi economica, che sta cambiando radicalmente la composizione stessa dei flussi; ed il propagarsi delle guerre in Nord Africa e Medio Oriente che spingono sempre più intere popolazioni ad abbandonare le proprie case e cercare rifugio nei Paesi confinanti. Una parte di queste persone raccoglie fondi sufficienti per pagare ai trafficanti il costoso e pericoloso viaggio verso l’Europa.
Quelli che arrivano dunque, non sono più gli aspiranti lavoratori provenienti dall’Est Europa, Asia o America Latina; sono invece i penultimi sfortunati rappresentanti del genere umano in fuga da guerre e persecuzioni. Per quanto riguarda gli ultimi, essi non possono nemmeno pagarsi il viaggio e spesso rischiano la vita nel rimanere a difendere le proprie dimore.
Gli immigrati se ne vanno?
L’immigrazione classica, invece, ha quasi smesso di arrivare, a causa della lunga crisi della nostra economia e del crollo dei posti di lavoro disponibili: al contrario, molti stranieri da anni residenti nel nostro Paese hanno deciso di andarsene, anche perché il permesso per ricerca di occupazione, scade dopo un anno e la scelta è solo quella diel lavoro nero o di cercare fortuna altrove.
Lo testimoniano gli ultimi dati del Ministero del lavoro, secondo cui “Le immigrazioni annue sono passate da 527 mila unità nel 2007 a 307 mila nel 2013, con un calo del 41,7%. Nello stesso periodo le emigrazioni sono più che raddoppiate: si parla di 700 mila italiani e 350 mila immigrati espatriati negli anni della crisi.
Nel 2014 si prospetta un ulteriore calo degli ingressi classici (che si dovrebbe attestare attorno alle 250 mila unità), oltre metà dei quali per ricongiungimento familiare.
Complice anche il blocco del decreto flussi (dal 2010), entrano da noi oggi solo lavoratori stagionali, lavoratori stranieri con permesso ottenuto da altro Stato Membro e pochi ingressi qualificati, più naturalmente gli overstayers che risultano però in drastica riduzione.
“E’ indubbio – commentano dal Ministero del Lavoro – che con 475 mila stranieri in cerca di lavoro nel 2014, e quasi 2,1 milioni inattivi – lo strumento del decreto flussi servirebbe solo ad arricchire il mercato sommerso dei permessi e non certo a far emergere lavoro vero”. Tutto vero, naturalmente. Com’è vero anche che il blocco virtuale degli ingressi legali in Italia per lavoro non è un bel segnale e non serve a molto: è come chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.
Per quanto riguarda gli stranieri che perdono il lavoro, nel 2012 il sindacato ha già ottenuto l’allungamento ad un anno del permesso per ricerca di occupazione. Oggi sta maturando la richiesta delle tre confederazioni di allungare a due anni questo tipo di permesso, assieme però alla promozione di efficaci politiche attive in materia di lavoro.
L’ondata di marea e la trappola di Dublino
Se il 2015 è l’anno dei rifugiati e degli sbarchi e se le prospettive degli arrivi sono quelle pronosticate dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione – 400 mila persone nel 2015 – c’è da chiedersi che possibilità abbia il nostro sistema di accoglienza (già praticamente al collasso), di reggere all’ondata umana di piena.
E c’è da chiedersi anche se l’Italia possa ancora permettersi di gestire l’immigrazione in arrivo, sulla base del regolamento di Dublino III.
Il Regolamento di Dublino (2003/343/CE), arrivato alla III edizione, è una normativa europea che determina lo Stato membro UE competente ad esaminare una domanda d’asilo o riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra: cioè il Paese in cui il richiedente asilo mette piede per la prima volta nella UE. Attualmente, per i rifugiati non è possibile fare domanda d’asilo nei Paesi di origine o di transito: e dunque sono costretti a mettersi nelle mani degli scafisti, pagare cifre astronomiche, ed attraversare perigliosamente il Mare Mediterraneo per mettere piede in Europa e poter ricorrere ad un diritto fondamentale.
Per quanto riguarda l’Africa, ma anche parte del Medio Oriente, i Paesi effettivamente di frontiera della UE sono Grecia ed Italia (la Spagna controlla l’enclave terrestre in territorio marocchino di Ceuta e Melilla).
La grande maggioranza dei richiedenti asilo dovrà approdare da noi, quale porta d’Europa. Una volta identificati, però, non potranno spostarsi nell’Unione e – se individuati – verranno rispediti nel primo Paese di identificazione. Tutto questo produce – sia pur indirettamente – il traffico su barconi fatiscenti (con 22 mila morti e guadagni miliardari per gli scafisti e forse jihadisti). Ancora: migliaia di rifugiati si nascondono per anni al fine di non essere identificati e poter raggiungere i propri familiari in un altro Stato.
Per rimuovere alla radice questo disastro umanitario, bisognerebbe cambiare il funzionamento di Dublino, e permettere ai rifugiati di fare domanda in un Paese di transito, chiedendo direttamente asilo al Paese di elezione. Cosa che non è possibile attualmente fare in Libia, ma che si potrebbe realizzare in Algeria, Tunisia e Marocco con la collaborazione dei rispettivi governi, magari installando centri di raccolta profughi gestiti dall’UNHCR.
E’ altrettanto evidente la ritrosia dei Paesi europei non costieri a cambiare Dublino. Meglio lasciare all’Italia e la Grecia (ma anche la Spagna) il compito di far fronte alle crescenti ondate in arrivo migratorie in arrivo via mare. L’unica concessione data sono crescenti finanziamenti UE per la prima accoglienza e l’integrazione.
Secondo il Ministero del Lavoro, sono in arrivo 200 milioni di euro per programmi di integrazione destinati ai rifugiati. Fondi che la direzione generale per l’immigrazione vuole destinare a programmi di creazione d’impiego o di formazione/ inserimento lavorativo.
Considerando che l’Italia ha fatto finora ben poco in materia di integrazione (molto e non sempre bene , invece, sul piano dell’accoglienza), la programmazione del Ministero del Lavoro è certamente una buona notizia. Resta comunque l’incognita del crescente bisogno di accoglienza e di un cambio radicale di prospettive migratorie che Europa e Italia dovranno necessariamente tener di conto.
Beppe Casucci
Coordinatore Nazionale UIL Dip. Politiche Migratorie