Dai promotori del seminario del 10 marzo, la proposta di un gruppo nazionale di lavoro sul popolo degli zingari per un dossier e proposte da presentare al Governo ed alle autorità locali
Roma – 12 marzo 2009 – Zingari, gitani: termini generici e imprecisi usati per indicare un insieme di popoli, in origine ritenuti nomadi ma che in gran parte non lo sono più. La storia del loro radicamento in Italia si perde nei secoli.
Si ritiene che in Italia i primi immigrati di origine Rom e Sinti siano arrivati nel 1392 come conseguenza della battaglia del Kosovo fra le armate ottomane e quelle serbo-cristiane. La prima testimonianza storica scritta della loro presenza in Italia risale al 1422 a Bologna. Nei secoli successivi, per sopravvivere, questi popoli hanno dovuto superare persecuzioni di ogni genere: arresti di massa in Spagna nel XVIII secolo, la schiavitù in Romania (fino al 1850), i campi di concentramento nazisti ed i rigurgiti xenofobi dell’epoca attuale.
Oggi in Italia sono presenti diversi gruppi etnici della popolazione romaní, rom e sinti, quantificati in circa 170.000 persone, di cui due terzi italiani. Un numero esiguo se raffrontato col numero di 1 – 1,5 milioni stabile in Romania, gli 800 mila residenti in Bulgaria e Spagna, il mezzo milione in Slovacchia e Ungheria, i 400 mila della Serbia ed i 350 mila della Francia. Ed in molti Paesi, il processo di accoglienza ed integrazione è andato molto più avanti che da noi, magari con il giusto utilizzo dei copiosi fondi che la UE mette a disposizione degli Stati membri per l’accoglienza ed integrazione di questo popolo.
Neanche questo fa l’Italia: i fondi giacciono utilizzati a disposizione di altre nazioni più avvedute e propense all’accoglienza. La UE non ci concede fondi perché l’Italia non fa accoglienza ma solo discriminazione ed emarginazione, all’insegna di un dubbio concetto della sicurezza. Da noi il tema è sempre un’emergenza, anche se dura da secoli. Per questo la drammatizzazione di fatti di cronaca si presta alle “convenienze” del politico di turno, e si trasforma in ripetute campagne d’odio verso il diverso.
Ma se gli altri Paesi europei, che hanno molti più Rom e Sinti dell’Italia, l’integrazione la fanno e noi no, allora c’è qualcosa che non va e forse proprio da parte nostra. Ma che cosa? E che si può fare per invertire questo percorso verso l’involuzione e la frattura sociale?
E’ partito da queste esigenze di capire ed approfondire, senza steccati politici o culturali, il seminario che si è tenuto lo scorso 10 marzo a Roma a Palazzo Marini. Titolo: “zingari, non aspettare un’altra emergenza per praticare l’integrazione”. L’iniziativa è nata da un gruppo di cittadini (Daniela Carlà, Giuseppe Casucci, Luca Cefisi Christopher Hein e Piero Soldini) di diversa provenienza, che ha raccolto l’adesione di centinaia di personalità della politica, della cultura, del sindacato, del mondo dello spettacolo.
Obiettivo: dar vita ad una sorta di resistenza culturale allo scempio del diritto che si sta compiendo ai danni di zingari ed immigrati; dar voce a chi si oppone alla xenofobia diffusa anche attraverso l’uso di strumenti istituzionali. Ma anche: riprendere un dialogo di confronto costruttivo tra i molti attori in campo, senza steccati e preclusioni, con l’obbiettivo di arrivare a proposte e soluzioni concrete, per mettere fine alla segregazione e discriminazione di questa minoranza linguistica e culturale.
Testimonianze
Gli interventi sono stati numerosi e qualificati. Per dare un’idea di quanto accada nei campi cosiddetti nomadi, è forse significativo riportare quanto ci raccontano alcuni diretti interessati. Roberto ha 30 anni, vive in un campo nomadi di Castel Romano. La sua famiglia appartiene al gruppo dei Sinti. Lui ha studiato e si è laureato, ma ora a 30 anni quando cerca lavoro si sente spesso rispondere: non c’è lavoro per gli zingari. “però, aggiunge, c’è molto lavoro sugli zingari”. Il fratello Nedzib è ancora più esplicito ed accusa: “Tantissime associazioni, dice, guadagnano soldi in progetti fatti su di noi. Progetti – a parole – di inclusione sociale o scolastica per i bambini, che in genere non servono a molto, ma servono a far guadagnare gli italiani. E quando chiediamo loro: fate lavorare anche alcuni di noi nei vostri progetti, allora le porte si chiudono.
C’è il business sullo zingaro ed è più redditizio farci vivere segregati nei campi, piuttosto che darci la possibilità di vivere in una casa, andare scuola o avere un lavoro”. Un rappresentante di un gruppo di Sinti (non dà il nome) oggi ospitato in un campo sulla Pontina, a 30 Km da Roma racconta: “siamo vissuti per anni al Testaccio, molti avevano anche una casa; eravamo conosciuti dalla gente del posto e non c’erano problemi. Oggi ci hanno deportato completamente fuori Roma, non abbiamo acqua e la luce la prendiamo di frodo. Alla mattina vengono a prendere con i bus i nostri bambini per portarli a scuola: non la scuola più vicina, ma varie scuole nel centro di Roma”.
“E’ assurdo, aggiunge, quando l’ultimo bambino viene consegnato all’ultima scuola del giro, sono già le 10 o le 11”. E non è tutto. “I nostri figli, racconta, si sentono diversi dagli altri bambini e a scuola così non ci vogliono andare. Quanto si spende per questo tour quotidiano per le scuole di Roma e chi ci guadagna?”. Un altro Romanì chiede di darci il suo punto di vista. Cizmic kasim è presidente per l’Italia di UNIRSI – Unione Nazionale ed Internazionale dei Rom e dei Sinti.
Anche lui è esplicito: “tutte le norme fatte su di noi, dice, sono basate su di un falso assunto: che siamo una popolazione nomade. In questo modo i sindaci vorrebbero che ci spostassimo in continuazione, da una città all’altra. Ma questo era forse vero secoli fa. Io sono italiano da generazioni. La maggior parte di noi è stanziale, spesso avevamo una casa ma ci siamo dovuti spostare perché non trovavamo lavoro: non c’è posto per gli italiani, figuriamoci per noi con i nostri cognomi e le nostre storie”. Aggiunge: “abbiamo bisogno di lavoro e scuola per i nostri figli, vogliamo vivere in case come tutti gli altri.
Non vogliamo vivere nei campi. Eppure il messaggio che filtra da giornali e TV riporta il contrario: che vogliamo vivere così, che non ci vogliamo integrare. E’ falso. Aiutate gli zingari ad integrarsi: la maggioranza di loro accetterà”.
Djiana Pavlovich, attrice di teatro ed impegnata politicamente a sinistra le sue battaglie le fa a Milano, nei campi nomadi attorno alla capitale padana. “La rappresentazione mediatica che si fa di Rom e Sinti è non solo farsesca, ma purtroppo anche funzionale ad una campagna d’odio e di rifiuto del diverso, cavallo di battaglia della Lega Nord”. Il fine? Raccogliere voti a partire dalla difesa dei privilegi dei veri padani. Purtroppo le somiglianze con le leggi razziali d’anteguerra sono paurosamente reali”.
Tutti i giorni Dijana fa attività volontaria nei campi Sinti in Milano e provincia: “sono condizioni spaventose di vita, racconta, che assomigliano più alle favelas del terzo mondo che non alle zone povere del secondo o del primo. E’ giusto che il Commissario UE che ha visitato i campi dove vivono Rom e Sinti, li abbia definiti “posti in cui le condizioni sono al limite della tolleranza umana”. “Quanti soldi si spendono per segregare i cosiddetti zingari”, chiede sarcastica, e quanti si potrebbero chiedere all’Unione Europea per una politica abitativa, scolastica e di avvio al lavoro di queste famiglie? Molti. Ma forse è più comodo ad una certa politica avere il diverso da colpire, per guadagnare voti e potere”.
Le proposte
Cosa fare? Ci si è chiesti durante il dibattito. Intanto va conosciuto meglio questo universo complesso, dalle mille sfaccettature che è il popolo dei Rom dei Sinti. La seconda cosa è avanzare proposte concrete di integrazione ed accoglienza, per cui ci sono i fondi disponibili in sede comunitaria. L’obiettivo è porre fine ai cosiddetti campi nomadi.
Bisogna inoltre partire dai bambini, per i quali è più facile un percorso di integrazione se nelle scuole è supportato dalla mediazione culturale e dall’aiuto didattico adeguato. Alla base, bisogna saper ascoltare quello che Rom e Sinti hanno da dirci, senza steccati, pregiudizi e discriminazioni.
L’idea, come è stata riassunta nelle conclusioni da Daniela Carlà, è quella di mettere insieme un gruppo di esperti – a partire da quelli Romanì – con apporti a livello nazionale, dalle associazioni che lavorano con loro, dalle facoltà universitarie che studiano da tempo questo universo e le sue dinamiche, ai rappresentanti della politica che siano disponibili a misurarsi senza preconcetti.
Il gruppo di studio analizzerebbe la situazione a livello nazionale, per elaborare poi un insieme di proposte da sottoporre al governo nazionale ed a quelli locali. Il popolo degli zingari, come ha detto il Prof. Brazzoduro durante il dibattito, era in buona parte italiano quando ancora l’Italia non era una nazione. Il problema non si risolve con l’anatema “se ne vadano a casa loro”. E’ questa la loro casa, com’è la nostra e dobbiamo imparare a vivere insieme in armonia”.
Giuseppe Casucci