Il quesito riguarda il trattamento di fine rapporto (T.F.R.), un’indennità che l’art. 2120 del codice civile riconosce al lavoratore in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato (licenziamento individuale e collettivo, dimissioni, raggiungimento età “pensionabile” ecc.).
La legge riconosce il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto al coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, purché quest’ultimo soddisfi i seguenti requisiti:
a)Deve essere titolare dell’assegno divorzile, previsto dall’art. 5 della Legge n. 898/1970 (l’assegno che il giudice riconosce se il coniuge non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive);
b)Non deve essersi risposato.
Se concorrono entrambe le condizioni, il coniuge potrà ottenere una percentuale pari al 40% dell’indennità di fine rapporto totale, riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
La ragione di questa previsione legislativa risiede nella considerazione che il trattamento in questione riguarda somme che avrebbero dovuto essere godute da entrambi i coniugi in costanza di matrimonio, ma che sono state accantonate.
Occorre precisare che il coniuge, per aver diritto ad una parte del tfr, deve essere titolare di un assegno divorzile versato periodicamente. Il coniuge non ha diritto, infatti, alla percentuale del T.F.R. se l’assegno in sede di divorzio è stato concordato in un’unica soluzione (assegno una tantum), oppure se il coniuge ha ricevuto esclusivamente una determinata somma o un bene, anziché il periodico assegno di mantenimento divorzile.
Il T.F.R. deve essere maturato dopo la domanda depositata per la richiesta di divorzio. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la normativa in questione non possa applicarsi al coniuge legalmente separato.
Se il coniuge non intende corrispondere la percentuale dovuta, sarà necessario rivolgersi ad un avvocato per riscuoterla coattivamente.