Il Consiglio di Stato, decidendo in merito al ricorso presentato da un cittadino extracomunitario avverso il rigetto di rinnovo del permesso di soggiorno emanato dalla Questura poichè risultato condannato per aver commesso alcuni reati, ha rigettato il ricorso per le seguenti motivazioni.
Il diniego emesso ai sensi dell’art. 5 comma 5 del D. Lgs. 286/98 e dell’art. 4 comma 1 del Dpr 394/99 in base al quale è rifiutato il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno al cittadino extracomunitario che risulti condannato, anche a seguito di patteggiamento, per alcuni reati specificatamente richiamati da tale articolo, deve ritenersi atto non vincolato e quindi legittimo anche se emesso in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma. Da ciò consegue che il rifiuto del rinnovo è legittimo anche se l’amministrazione procedente non ha comunicato l’avvio del procedimento di diniego o se il decreto di dineigo non sia stato tradotto nella lingua del destinatario del provvedimento.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.415/2008
Reg.Dec.
N. 9519 Reg.Ric.
ANNO 2006
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
sul ricorso in appello n. 9519/2006, proposto da ZEROUAL EL IDRISSI SAID, rappresentato e difeso dall’Avv. C. Benini ed elettivamente domiciliato presso le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, sez. I, n. 1140/06 del 28.6.2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 20 novembre 2007, il Consigliere Gabriella De Michele;
Uditi l’avv. Vagnozzi per delega dell’avv. Benini;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
– in via preliminare, illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3 e 5, comma 5 del D.Lgs. n. 286/98, come modificato dalla legge n. 189/2002, per violazione degli articoli 2, 3, 4, 13, 16, 25 comma 3, 27 comma 3 e 35 della Costituzione, nella parte in cui le predette norme introducono un automatismo nel negare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a fronte di una condanna per determinati reati, sottraendo all’Autorità amministrativa il potere di valutazione della pericolosità sociale del cittadino extracomunitario;
– illegittimità della sentenza impugnata per violazione o erronea interpretazione di legge, oltre che per irragionevolezza, eccesso di potere, carenza e vizio di motivazione, in relazione all’omessa valutazione della pericolosità sociale e alla corretta applicazione della disciplina (ancora una volta art. 4, comma 3 e art. 5, comma 5 del D.Lgs. n. 286/98) in materia di rilascio di permesso di soggiorno, in quanto le condanne inflitte in sede penale non dovrebbero dare luogo ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale, indipendentemente dalle “risultanze di un’adeguata istruttoria, riguardante l’intera personalità del soggetto in tutte le manifestazioni della sua vita”; nella fattispecie, inoltre, non sarebbero state considerate diverse circostanze, che avrebbero giustificato conclusioni diverse: l’esistenza con certezza di un’unica condanna (mentre altri precedenti penali, emersi dal casellario giudiziale di Roma corrisponderebbero a casi di omonimia o ad errori), la lunga permanenza in Italia (almeno dal 1995) e la documentata sussistenza di un rapporto di lavoro in corso.
L’Amministrazione non si è costituita in giudizio in sede di appello.
DIRITTO
La duplice questione sottoposta all’esame del Collegio è quella (in ordine di priorità logica) dell’avvenuta emanazione, o meno, dell’atto impugnato in primo grado in conformità alle norme vigenti e, in caso affermativo, della possibilità di sollevare riguardo a dette norme questione di costituzionalità, previo giudizio di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione stessa.
Sotto il primo profilo, il diniego di permesso di soggiorno appare emesso in conformità al dettato dell’art. 5, comma 5 del D.Lgs. 25.7.1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione), in base al quale “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato…sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili”.
Tra le circostanze che precludono il rilascio del permesso di soggiorno (e quindi, in base alla norma sopra riportata, anche il rinnovo del medesimo) l’art. 4, comma 3 del medesimo D.Lgs. – nel testo introdotto dall’art. 4, comma 1, della legge 30.7.2002, n. 189 – pone infatti espressamente il caso in cui lo straniero “risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dall’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”.
Nella situazione in esame, dunque, correttamente il Giudice di primo grado ha ritenuto che – anche in presenza di contestazioni, circa la riferibilità al ricorrente di altri precedenti penali, risultanti dal casellario giudiziale – fosse sufficiente giustificazione del diniego impugnato anche la sola ultima condanna inflitta al medesimo, a seguito di patteggiamento, per detenzione e spaccio di stupefacenti.
La norma sopra riportata, d’altra parte, non lascia margini di discrezionalità, circa l’entità della pena, la gravità e la segnalata occasionalità della condotta sanzionata e la valutazione della personalità complessiva dell’imputato, essendo presupposto del diniego la mera sussistenza di determinate tipologie di condanne penali (come, per quanto qui interessa, quelle relative a reati in materia di possesso e commercio di sostanze stupefacenti) e ponendosi come unico elemento giustificativo di eventuali deroghe la “sopravvenienza di nuovi elementi”, evidentemente da valutare caso per caso ove emergente dagli atti (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 20.4.2006, n. 2199; 17.5.2006, n. 2866, 27.6.2006, n. 4108; 17.5.2006, n. 2866).
Nel caso di specie, la condanna riportata nel 2005 dall’attuale appellante rientra fra quelle ostative, ex se, del rilascio o del successivo rinnovo del permesso di soggiorno, senza che siano evidenziati dall’interessato – o ravvisabili in base alla documentazione in atti – quei “nuovi elementi” sopravvenuti, che in base alla citata normativa avrebbero potuto consentire, in via eccezionale, il rinnovo stesso: la condotta penalmente sanzionata, infatti, risulta posta in essere quando l’interessato soggiornava già da tempo sul territorio nazionale, dove il medesimo attesta di avere sempre svolto regolare attività lavorativa, tanto da non potersi ricondurre la condotta stessa a circostanze straordinarie, o a ragioni (poi venute meno) di assenza di mezzi di sostentamento.
In tale contesto, il diniego deve essere ritenuto atto vincolato, non annullabile per violazione di norme sul procedimento o sulla forma, ai sensi dell’art. 21 octies della legge 7.8.1990, n. 241, nel testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, n. 15, con conseguente irrilevanza del mancato preavviso di diniego e della omessa traduzione del provvedimento nella lingua dell’attuale appellante (fermo restando, sotto quest’ultimo profilo, che non si afferma nel caso di specie che l’appellante stesso, soggiornante sul territorio nazionale dal 1995, non conoscesse l’italiano, ma solo che non avesse conoscenze sufficienti per avere piena consapevolezza del significato della terminologia giuridica: circostanza, questa, rapportabile più al livello di scolarizzazione che alla nazionalità e che, comunque, impone nei giudizi una difesa professionale, di cui l’appellante ha in effetti usufruito).
Resta da valutare se le norme, nella fattispecie applicate, possano suscitare dubbi di costituzionalità, nei termini prospettati dall’appellante o, comunque, rilevabili anche d’ufficio dal Collegio.
La questione sarebbe indubbiamente rilevante per la soluzione (altrimenti negativa) della questione sottoposta a giudizio, ma il Collegio stesso ritiene di doverne ravvisare la manifesta infondatezza, anche a prescindere dal fatto che la Corte Costituzionale si sia già espressa per l’inammissibilità di diverse eccezioni di incostituzionalità, sollevate in ordine sia all’art. 4, comma 3 nel testo attualmente vigente, sia all’art. 5, comma 5 del più volte citato D.Lgs. n. 286/98, alla luce degli articoli 2, 3, 4, 13, 16, 27, 29 e 35 della Costituzione (Corte Cost. 11.1.2005, ordinanza n. 9, 6.12.2006, ordinanza n. 431 e 4.12.2006, sentenza n. 414).
Non può essere posta in dubbio, infatti, la discrezionalità del legislatore nel valutare le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, in rapporto a fenomeni di vasta portata che, in un determinato momento storico, possono porre problematiche eccezionali: l’ampiezza del fenomeno immigratorio, la registrata crescita di condotte devianti, con conseguente allarme sociale e l’oggettiva difficoltà di controllo capillare del territorio possono, dunque, porre su una base di ragionevolezza (nei limiti rilevanti sotto il profilo in esame), anche disposizioni molto rigide, che vedano preclusa la permanenza sul territorio nazionale di chi sia stato condannato per determinati reati.
Le norme di cui si discute, pertanto, appaiono frutto di bilanciamento di interessi, fra una “politica dell’accoglienza” (che privilegi il lato personale ed umano, ovvero l’indubbia possibilità di recupero sociale di chi sia incorso in vicende anche penalmente rilevanti) ed una “politica del rigore”, che punti ad inserire nel tessuto sociale solo i numerosissimi lavoratori stranieri che offrano le migliori garanzie di positivo apporto e migliore inserimento nella collettività, senza che l’una o l’altra di tali scelte trovino ostacolo nella Carta Costituzionale, non essendo imposta – anche nell’ottica della legislazione restrittiva, attualmente vigente – alcuna presunzione assoluta di pericolosità sociale del singolo, ma solo una esigenza di condotta irreprensibile per l’ingresso e la permanenza dello straniero sul territorio nazionale, peraltro non senza possibilità di valutare nuove circostanze sopravvenute (non ravvisate nel caso di specie), che possano in via eccezionale giustificare anche singole condotte devianti.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, RESPINGE l’appello; COMPENSA le spese giudiziali.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale – Sez.VI – nella Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo Presidente
Carmine Volpe Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Luciano Barra Caracciolo Consigliere
Gabriella De Michele Consigliere Est.
Presidente
Giovanni Ruoppolo
Consigliere Segretario
Gabriella De Michele Giovanni Ceci
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il…08/02/2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
Maria Rita Oliva
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
Addì……………………………..copia conforme alla presente è stata trasmessa
al Ministero………………………………………………………………………………….
a norma dell’art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
Il Direttore della Segreteria