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Direttiva rimpatri, cosa cambia?

L’Italia non ha recepito le regole europee, che disegnano un nuovo sistema per le espulsioni. Gli scenari possibili

Roma – 24 dicembre 2010 – Oggi è il termine ultimo per recepire la Direttiva 2008/115/Ce riguardante le norme e le procedure comuni applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di extracomunitari in caso di soggiorno irregolare. Questa direttiva è stata emanata, dopo non poche polemiche, allo scopo di “stabilire norme comuni in materia di rimpatrio, allontanamento, uso di misure coercitive, trattenimento e divieti di ingresso”.

Ad oggi, lo Stato italiano non ha dato attuazione alla direttiva anche se un tentativo di recepirla, in parte, fu fatto nel settembre del 2009, in occasione della discussione della Legge 96/2010 per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee, la c.d. “Legge Comunitaria”. Rappresentando maggiori oneri per la finanza pubblica, privi di copertura e non quantificabili, la direttiva non venne attuata.

Quali potrebbero essere le conseguenze già a partire da domani per il cittadino extracomunitario sprovvisto di regolare permesso di soggiorno? Quali le valutazioni dei giudici chiamati a decidere sul reato di clandestinità introdotto recentemente dal pacchetto sicurezza?

Non è possibile avere una risposta certa poiché la questione, purtroppo, è soggetta a difficili valutazioni giuridiche che lasciano immaginare la situazione di incertezza in cui potrebbero trovarsi non solo i diretti destinatari della direttiva (i cittadini extraUe irregolari o clandestini), ma anche coloro che devono dare esecuzione alle norme sull’espulsioni, sulla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato.

Cosa dice il Testo Unico
L’attuale testo sull’immigrazione, il D. Lgs. 286/98 come modificato dalla Legge Bossi Fini e dal pacchetto sicurezza, prevede che lo straniero sprovvisto del permesso di soggiorno deve essere espulso con l’accompagnamento coattivo alla frontiera. Se ciò non è possibile viene diffidato a lasciare il territorio italiano entro 5 giorni oppure in caso di indisponibilità del vettore o per accertamenti sulla sua identità, essere trasferito in un Centro di Identificazione ed Espulsione, previa convalidata da parte di un giudice, del trattenimento. Il cittadino extracomunitario non può far rientro in Italia prima di 10 anni dalla data del provvedimento che ha disposto l’espulsione.

Oltre all’espulsione, il cittadino extraUe risponde del reato di ingresso o soggiorno illegale con un ammenda da 5 mila a 10 mila euro e se si trattiene ancora o rientra nel territorio italiano è punito con la reclusione da 1 a 4 anni e con una nuova espulsione. Violando anche questo ordine, può essere nuovamente punito con la reclusione da 1 a 5 anni ed ancora espulso.


Cosa dice la direttiva rimpatri

Le norme contenute nella Direttiva 2008/115/CE prevedono un meccanismo diverso e per certi aspetti in contrasto con le norme nazionali.

Il cittadino extracomunitario irregolare è soggetto ad una “decisione”di rimpatrio volontario. “Per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura lo Stato può rilasciare un permesso di soggiorno autonomo o altra autorizzazione” che riconosca il diritto del cittadino a soggiornarvi.

Nella decisione di rimpatrio viene stabilito un termine per allontanarsi volontariamente che non può essere inferiore a sette giorni e superiore a trenta, a meno che, esistano delle condizioni specifiche (durate del soggiorno, vincoli familiari, legami sociali, ecc..) e in tali casi tale termine può essere prorogato.

Solo in presenza di un pericolo di fuga o più in generale di una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, è previsto che non venga concesso un termine (oppure che questo possa essere inferiore a sette giorni). In tale caso lo Stato deve disporre il rimpatrio prevedendo, contestualmente, un divieto di reingresso la cui durata, che non dovrebbe superare i cinque anni, deve tener conto nello specifico della situazione del cittadino clandestino. Solo se questi rappresenta una grave minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato allora può esser previsto un divieto di reingresso superiore a cinque anni.

Solo se può essere gravemente compromesso il rimpatrio per ragioni legate alla condizione del cittadino irregolare  allora lo Stato può disporre il trattenimento presso un Centro di Permanenza temporanea ma per un periodo non superiore a sei mesi e nel rispetto dei diritti del cittadino trattenuto.

Gli scenari possibili
Premesso tutto ciò è innegabile che la Direttiva prevede un sistema strutturato ben lontano da quello attualmente in vigore in Italia.

Ma qual è la conseguenza del mancato recepimento della direttiva in questione da parte dello Stato italiano? La Direttiva potrebbe considerarsi direttamente applicabile anche in mancanza di una legge italiana attuativa?
La direttiva ha previsto un insieme di norme sufficientemente dettagliate, chiare, corrette e trasparenti (self executing) e tali da comportare un’immediata e diretta applicabilità nello Stato che non ha provveduto a recepirla entro il termine di legge.

Per il principio costituzionale del primato delle norme comunitarie su quelle nazionali, queste sono automaticamente sostituite da quelle comunitarie o comunque, in alcuni casi, le norme interne possono essere disapplicate. Il giudice, chiamato a decidere in merito ad un provvedimento di espulsione,   potrebbe sollevare una questione di legittimità alla Corte di Giustizia.

In realtà lo scenario potrebbe essere diverso. La direttiva, come si legge all’articolo 2, non trova applicazione nell’ipotesi in cui il rimpatrio rappresenti una sanzione penale o sia una conseguenza di una sanzione penale. Considerando che la legge italiana prevede il reato di clandestinità nelle ipotesi di ingresso e soggiorno irregolare si potrebbe concludere che il sistema dei rimpatri non debba trovare applicazione in Italia.

Vien da chiedersi però come mai l’introduzione del reato di clandestinità è avvenuta qualche mese dopo la pubblicazione della direttiva sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.

I principi  di leale cooperazione e l’obbligo di standstill che prevedono che uno Stato Membro non adotti misure in contrasto con gli obiettivi di una direttiva oppure non ne ostacoli in nessun modo l’attuazione non hanno ispirato il legislatore?

Il reato di clandestinità vuole assicurare l’esecuzione delle espulsioni dei clandestini e non ha nulla a che vedere con la loro pericolosità sociale o con la commissione di reati penali.

La mancata applicabilità della Direttiva negli Stati che prevedono che situazioni di clandestinità siano inquadrabili in reati penali rende vano proprio lo spirito e l’essenza della direttiva stessa.

Chissà se già da domani il tanto discusso reato di clandestinità, più volte e sotto diversi profili colpito dalla Corte Costituzionale, rappresenterà invece la condizione per la quale l’Italia, per palese violazione degli obblighi comunitari, dovrà tornare indietro nei suoi passi.

Avv. Mascia Salvatore

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