Roma – 6 dicembre 2012 – Immaginate un palcoscenico, grande o piccolo che sia. Aggiungete quattro figure illuminate con maestria; una delle quali danza senza sosta, talvolta rappresentando il sogno e altre l’angoscia. Ora alle immagini aggiungete la musica. Tanti strumenti che sotto le mani abili dei due musicisti traboccano di ritmi e poco dopo trasudano suoni che in fretta ti raggiungono l’anima. E poi la voce, un grido, una carezza, un canto funebre o un’esplosione di estasi.
Marsel Lesko, classe 1975 ha un legame quasi viscerale con la lingua, che lui definisce figlia del suono e, intervistato da Shqiptariiitalise.com, fa una distinzione: “Se l’albanese è la lingua dell’infanzia e della strada, l’italiano è la lingua degli studi, delle letture, dei cantautori, dei poeti e dei filosofi. L’albanese è la lingua del latte, è un uovo mangiato in due con mio fratello, la lingua delle storie di spiriti con gli amici, dei canti dei miei nonni, la lingua dei falò di notte mentre aspettavamo i camion carichi di angurie. L’albanese è la lingua del telefono, da 21 anni è il mezzo che sostituisce l’abbraccio mancato” .
Alcuni versi della sua opera “I huaji” (Lo straniero) sono un pugno nello stomaco. Mangio lacrime/E più non piango/Con unghie stanche/E rigate/Scrivo parole/Affamate/Sul pallido muro/Sono straniero/Voglio un ponte/Sul mare oscuro. Marsel Lesko spiega che “In un mondo pieno di recinti, chiunque senta ancora in sé lo scorrere della vita si ritrova spesso ad essere “straniero”. Il suo è un grido di dolore, non di disperazione, lui lo considera “il punto d’inizio indispensabile per esser presenti nella vita. Come il seme che per vedere il sole deve prima liberarsi del proprio guscio e spingere la terra pesante. Una sorta di dolor fertile che ogni creatura attraversa per nascere in vita”.
Marsel Lesko e Magda Saba sono diplomati all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, mentre Robert Bisha e Federico Di Maio hanno conseguito gli studi al conservatorio. Provenienze e percorsi diversi per i quattro dell’Aion Teatër che però si definiscono un tutt’uno, come se appartenessero ad un solo respiro.
Irida Cami
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