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Il viaggio di Faheem, da Islamabad a Lampedusa

Migliaia di chilometri inseguendo la speranza di una vita migliore. Passando per la Libia di Gheddafi e affrontando le onde del Mediterraneo

 

Roma – 29 marzo 2012 – Faheem è fortunato, lui in Libia è arrivato in aereo. È partito da Rawalpindi, vicino ad Islamabad in Pakistan, a ventisei anni. Penultimo di sei figli. Tre femmine e tre maschi, padre in pensione e mamma casalinga.

Difficilmente le donne in Pakistan lavorano, non è onorevole. Ogni sorella è una bocca in più da sfamare, almeno fino al matrimonio. Faheem ha studiato fino alla scuola superiore e poi subito a cercar lavoro. Ma le tante spese e i pochi soldi, racconta ad Azad.it, facevano aumentare solo preoccupazione e disagio.

È così che un giorno un conoscente del padre, arriva nella loro casa e porta con sé un visto di lavoro rilasciato da una grande ditta di costruzioni in Libia, la C.K.J. La sede è a Tripoli. E la C.K.J. è sempre in cerca di personale soprattutto nel subcontinente indiano. Per cambiar vita servono 1400 euro e l’occasione è da non perdere. Se non saranno loro a comprare il visto, fuori ci sarà sicuramente la ressa per aggiudicarselo.

Il tempo per riflettere è poco. Così Faheem è il prescelto. Le promesse del conoscente sembrano buone: la paga sarà di 500 dollari per otto ore di lavoro più gli straordinari, vitto e alloggio. Certo sarà difficile trovare i soldi per cominciare, il visto e poi il biglietto dell’aereo. Ma le prospettive future sembrano allettanti.

In Libia dall’amico di Gheddafi
21 settembre 2007, Faheem parte. Islamabad-Tripoli, un biglietto di solo andata. La ditta appartiene ad un pakistano, Malik Shaukat, rifugiato politico in Libia ai tempi del colpo di stato del generale Zia Ul-Haq. Shaukat è amico di Ghedaffi e ha mano libera per i suoi affari.

L’inizio non è buono, da subito tutte le aspettative vengono disattese. La paga è bassa, gli straordinari non sono remunerati e Faheem vive all’interno del cantiere come uno schiavo. I guardiani libici non lasciano uscire nessuno, non hanno contatti con la popolazione autoctona e  non c’è un medico. Inizia così a sfumare il sogno di riscatto. Per cinque mesi, Faheem sopporta, ma dentro di lui comincia a crescere l’idea di un cambiamento definitivo: raggiungere l’Europa, il paese dei diritti. Indietro non si torna. Mai.

All’interno del campo circola un nome, Ustad Scoon, un altro pakistano, nessuno lo ha mai visto ma tutti hanno il suo numero di cellulare. Fa l’agente di viaggio, organizza fughe verso l’Europa. Ustad Scoon significa “maestro di pace” perché lui è una persona seria, scruta il cielo e il mare e le sue barche lasciano le coste libiche solo quando il mare è scoon, calmo. Una garanzia.  Faheem telefona subito prende accordi, 2000 dollari per il viaggio della speranza. Tutto compreso. Dopo dieci giorni tutto è pronto.
Faheem ha paura. Se la polizia libica ti scopre ti rimanda a casa con le gambe spezzate: handicappato per sempre. Ma indietro non si torna.

Venerdì 6 giugno 2008, Faheem, approfitta del giorno di preghiera per lasciare il campo. Non ha valige ne ricordi. Solo lui e il suo terrore. Deve raggiungere con un taxi, Tajora, un sobborgo di Tripoli. Una volta lì, qualcuno gli verrà incontro. La prima tappa del suo viaggio è un appartamento, ci sono già altre persone, tre pakistani e due indiani, i suoi nuovi compagni d’avventura. Finalmente incontreranno Ustad Scoon. Viene a riscuotere i soldi del viaggio, quaranta anni, vestito modesto, niente che possa attirare l’attenzione ma la sua forza sono i contatti. Scoon lavora con un colonnello libico.

Per due settimane Faheem insieme ai suoi compagni rimangono nascosti nell’appartamento, il tempo non è buono. Piove sempre. Intanto nella casa i viaggiatori aumentano: egiziani, indiani, bengalesi, alla fine sono trenta. Finalmente il sole e Scoon pensa che sia arrivato il momento giusto per salpare. Così all’alba del 19 giugno quattro intermediari libici si presentano a Tajora per condurre il gruppo sulla costa.
Gli agenti portano con loro altre ventidue persone, per lo più somali. C’è anche una donna con il marito. In tutto sono ora cinquantadue. Comincia la marcia, tra anfratti e stradine sterrate. Camminano a coppia e  chi rompe le fila viene violentemente invitato a tornare al suo posto. Ma, per fortuna, la costa è vicina. E dopo poco più di un’ora raggiungono il mare.

Destinazione Lampedusa
Il sole è già alto, l’acqua una tavola. Oggi è un buon giorno. Scoon ha mantenuto la promessa. Non ci sarebbero stati pericoli. La spiaggia è disabitata, il barcone pronto, c’è anche un gommone. Ci sono viveri, un telefono satellitare e tante taniche di benzina. Ognuno ha un giubbotto salvagente. Scoon lo aveva detto, 2000 dollari tutto compreso. La paura un optional, chi vuole la porta con sé. Sulla spiaggia rimane la vita che era stata. “Non voltarti non c’è tempo”. E’ la mente che parla, il cuore oramai non batte più.

Si sta un po’ stretti sulla barca ma per cambiar vita, qualche disagio bisogna pur sopportare. Via si parte. Il timone lo tiene un libico per un’ora, li accompagna in mare aperto istruendo un somalo, che nella sua vita precedente faceva il pescatore. Sarà lui il timoniere. Il libico lascia la barca e con il gommone ritorna in dietro. Ora sono soli, l’Europa è là a 320 chilometri. La meta: Lampedusa.

Nessuno ha mai sentito parlare di questa isoletta. Alcuni non conoscono neanche l’Italia. Ma tutti conoscono il “paese Europa”. Tutti sanno che lì si vive bene ci sono diritti, benessere e possibilità. Nessuno di loro sa, che una volta arrivati, pochissimi c’è la faranno. Il somalo tiene la rotta, un altro stringe la bussola. Non dovranno mai perdere l’orientamento e seguire la lancetta che segna “300”.
Non si fermano mai, il mare increspato fa paura e il barcone ondeggia vivace. Poi cominciano i guai: il motore si ferma ma poi riparte. Imbarcano acqua ma riescono a rigettarla. Intanto le taniche di benzina iniziano a diminuire, si comincia a stare più larghi.

Arriva la notte, nessuno parla, nessuno dorme. Si fa pipì nelle bottiglie. In lontananza ogni tanto incrociano qualche mercantile, ma nessuno li vede. Meglio. Bisogna sempre seguire la bussola e la sua lancetta che segna “300”. Sono tanti ma tutti soli, si stringono nel giubbotto salvagente per sopportare meglio il freddo, pochi di loro hanno una giacca.

Passano le ore. Ma la terra ancora non si vede. Ogni tanto gruppi di delfini li inseguono, giocano con la barca, guizzano, schizzano e fanno oscillare la navicella. Ma su quella bagnarola carica di disperazione e speranza nessuno vuole scherzare.

Sono passate trentacinque ore. Ora in lontananza si vede qualcosa. Il cuore ricomincia a pulsare, il respiro interrotto è ora più regolare, anche la vita che sembrava persa si riappropria dei corpi. Sono vivi e vicino alla costa.

Iniziano le manovre per l’avvicinamento. Bisogna sfilarsi i giubbotti salvagente e gettarli in mare insieme a tutto il resto: viveri, bussola e satellitare. Ma prima chiamano Scoon e lo rassicurano che sono arrivati davanti all’Europa. E’ l’ultimo contatto. Scoon li avverte, ora dovranno solo aspettare. Qualcuno li verrà a prendere. E così, in questa splendida mattinata di inizio estate, Faheem con i suoi compagni naviga a vista intorno alle spiagge di Lampedusa. Certo, un viaggio di prima classe tra le rotte clandestine!

Da lontano potrebbero sembrare passeggeri di un’escursione organizzata, una delle tante, che affollano le acque superbe dell’isola. Incrociano un pescatore, con la mano gli fa un cenno di saluto quasi un benvenuto e da lì a poco verranno raggiunti dalla guardia costiera.

Il viaggio è finito. Finalmente vengono scortati fino al porticciolo. Sulla banchina c’è una gran folla. E una volta a terra i cinquantadue passeggeri alzano un grido di gioia: ce l’hanno fatta. Inizia il balletto mediatico: giornalisti, fotografi, non per gli eroi, per i “clandestini”. Una breve occhiata medica e via sul pullman: destinazione CTP. Ma questa è tutta un’altra storia

Ejaz Amhad
Azad.it

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