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Flussi. Forlani: “Prima le domande, poi le quote”

Il direttore immigrazione del Ministero del Lavoro: “Ridisegnare gli ingressi. Il Piano Integrazione è già una realtà”

Roma – 1 marzo 2011 – I flussi di ingresso, come sono e come dovrebbero essere. Un sistema finora fallimentare che si trasforma in uno strumento affidabile di programmazione  e gestione dell’incontro tra domanda e offerta di manodopera.

Secondo Natale Forlani, direttore Immigrazione del Ministero del lavoro, la svolta non è lontana. È scritta in quel Piano per l’integrazione”, già finanziato, che sta diventando operativo con una lunga serie di interventi. Ma partiamo dal presente.

Fino allo scorso autunno dicevate di non voler fare flussi, perché bisognava prima reinserire i disoccupati. Poi è arrivato il nuovo decreto da 100mila ingressi. Perché avete cambiato idea?
Abbiamo rilevato una domanda aggiuntiva di colf e badanti, che non poteva essere coperta dai disoccupati di altri settori. Ogni anno ci sono 90mila persone non autosufficienti in più e per ora gli italiani non sembrano intenzionati a lavorare nell’assistenza familiare. Quindi servono lavoratori immigrati.  Poi c’erano gli accordi bilaterali con molti paesi d’Origine che rischiavano di andare in sofferenza con un ulteriore stop ai flussi.

A questo non si è aggiunta l’esigenza di regolarizzare un po’ di clandestini rimasti fuori dall’ultima sanatoria?
Credo che dai dati delle domande presentate non emerga l’ utilizzo dei click day per regolarizzare rapporti già esistenti, almeno nelle dimensioni di cui si parla di solito. Il grosso delle domande riguarda l’ assistenza familiare, per la quale c’era già stata una regolarizzazione. Io vedo in quei dati richieste di ingressi dall’estero.

Possibile che fenomeni  come le 30mila domande di lavoratori domestici cinesi non le sembrino un po’ strani? Quante badanti cinesi conosce?
Quello è un caso particolare, che probabilmente prescinde dalle dinamiche normali di richiesta e offerta di lavoro,  bisognerà valutare con attenzione quelle domande. La comunità cinese gestisce al suo interno e in modo molto particolare il mercato del lavoro, ma credo che sia arrivato il momento di creare un nuovo rapporto bilaterale tra la Cina e l’Italia sull’immigrazione.

L’ assegnazione quote alle province come ha funzionato?
È stata concertata con il territorio. Subito dopo i click day c’è stata un piccola distribuzione iniziale per  far lavorare gli sportelli, poi sono state consultazioni a livello locale per distribuire il grosso delle quote. A Trento, a Bolzano, in Veneto e in Friuli, non hanno voluto quote aggiuntive, nelle altre regioni le quote assegnate corrispondono al 40% delle loro richieste.

In Veneto, Friuli e Trentino il “no” è stato di natura politica?
In tutti i casi sono state sentite le istituzioni locali, ma anche associazioni dei datori di lavoro e sindacati. Quindi non è questione di colore politico. In quei territori c’è stato questo tipo di valutazione. In generale sono molto soddisfatto delle consultazioni locali. Istituzioni e parti sociali hanno ragionato anche in base al numero di domande presentate sul territorio.

Alla fine però le domande sono il quadruplo rispetto alle quote. Ancora una volta, la programmazione ha fallito. Crede che il decreto flussi sia lo strumento giusto per far arrivare lavoratori stranieri in Italia?
Dobbiamo fare passi avanti notevoli. C’è un’innegabile debolezza nella previsione dei fabbisogni e nell’ incontro tra domanda e offerta. Il meccanismo del decreto flussi è palesemente incongruente rispetto alle dinamiche della formazione di domanda di lavoratori. Credo sia stato giusto farlo per evitare danni peggiori, però bisogna riflettere e accelerare su meccanismi diversi, come quelli previsti dal Piano per l’Integrazione.

Cosa bisognerebbe fare?
Innanzitutto migliorare il monitoraggio di informazioni disponibili per programmare i flussi per lavoro. Fattori come la demografia sono valutabili  anche a lungo termine, ma entrano in gioco anche aspetti economici contingenti, ad esempio: ci saranno crisi? quanto dureranno? E poi ci sono aspetti culturali, gli italiani potrebbero ricominciare a fare lavori che non fanno più. Per questo bisogna monitorare.

E finora non è stato fatto?
In dodici anni di Testo Unico sull’Immigrazione non c’è stato un rapporto pubblico sull’ andamento del mercato del lavoro. Abbiamo iniziato noi con il Primo rapporto annuale al quale si aggiungeranno report semestrali  su diverse fonti:Istat, Inps, Comunicazioni Obbligatorie e Sistema Excelsior.

Il rapporto che avete appena pubblicato stima dal 2011 al 2015 un fabbisogno di manodopera di 100mila lavoratori l’anno, che dovrebbe salire a 260 mila tra il 2016 e il 2010
Quelle sono comunque ipotesi  che andranno verificate in base al monitoraggio. Ma attenzione: non c’è rapporto diretto tra le quote dei decreti flussi e questo fabbisogno. Io posso avere bisogno di 100 mila badanti, ma intanto possono andarsene 200 mila lavoratori edili o del commercio. Insomma quando faccio i flussi non aumento necessariamente gli immigrati in Italia.

E il monitoraggio da solo può far diventare efficienti i flussi?
No, il meccanismo deve essere invertito. Noi dobbiamo arrivare a istruire le domande prima di definire le quote. Imprese e famiglie devo rivolgersi a intermediari che verificheranno se ci sono disoccupati, italiani o stranieri, che fanno al caso loro. Se non è così, istruiranno le domande di assunzione e noi in base alle domande definiremo il numero di ingressi.

Che intermediari?
Patronati, associazioni dei datori di lavoro, enti bilaterali e altri soggetti autorizzati. Il collegato Lavoro alla manovra finanziaria ha semplificato le iscrizioni all’albo degli enti che possono fare intermediazione. Noi dobbiamo fare nuove convenzioni e programmi di sostegno per la formazione degli operatori. Ma la rete c’è già, pensiamo ad esempio ai patronati. Entro il 2012 attiveremo almeno 1200 sportelli per le famiglie che hanno bisogno di colf e badanti.

Il piano per l’Integrazione punta molto sulla formazione nei Paesi di origine
Noi abbiamo finora solo quattro accordi diplomatici con Egitto, Moldavia, Marocco e Albania per la creazione di liste di disponibilità presso le nostre rappresentanze diplomatiche e per la formazione in loco. Dobbiamo fare molti più accordi e potenziare questo strumento. Chi è formato all’estero entra al di fuori delle quote.

Un canale preferenziale per chi è formato all’estero è già previsto dalla legge. Cosa non ha funzionato finora?
Finora questi lavoratori non venivano in Italia, ma andavano in liste di disponibilità con diritto di prelazione e poi dovevano aspettare i flussi. Invece il meccanismo deve essere diverso: scopriamo di chi abbiamo bisogno, selezioniamo e formiamo questi lavoratori nei loro Paesi. Una volta certificata la formazione li portiamo subito qui, perché hanno già un lavoro.

Ma formare all’estero conviene economicamente?
Sì, costa meno, a cominciare dai semplici corsi di lingua italiana. A maggio avremo i primi bandi per il cofinanziamento di interventi di questo tipo, quest’anno vogliamo far arrivare 4500 lavoratori formati in patria, ma col tempo questi ingressi devono diventare molti di più. In generale, i flussi devono essere legati a dinamiche reali, le aziende hanno i lavoratori che chiedono e intanto si tutela l’esigenza collettiva di far arrivare solo persone che hanno già un lavoro.

Il “Piano integrazione” è pieno di buoni propositi. Non rischia però di rimanere una specie di libro dei sogni?
No, perché il piano integrazione non è solo stato scritto, è già operativo, finanziato con 75 milioni di euro. Tutti i suoi interventi sono partiti o partiranno nei prossimi mesi, ci sono già i soldi e ci sono i soggetti che devono realizzarlo. Funzionerà. Non può non funzionare.

Elvio Pasca

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