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IL MARKETING È XENOFOBO!

di Enzo Mario Napolitano

Etnica.biz, agosto 2009 – Nel 2001 Guido Ortona, professore ordinario di Economia Politica all’Università del Piemonte Orientale, ha pubblicato per i tipi di Utet un saggio dal titolo misterioso: Economia del comportamento xenofobo.

Pagine dense di formule tese a spiegare come, quando e perché le aziende sviluppano una strategia di “xenofobia razionale” che presuppone l’esistenza di un soggetto economico disposto a pagare perché i membri di un dato gruppo etnico subiscano un danno in vista di un guadagno maggiore dei costi sostenuti. Secondo Ortona la xenofobia per essere razionale deve convenire e può svilupparsi solo se la società si dimostra, a sua volta, xenofoba e quindi disposta ad apprezzare tale strategia. Un’azienda xenofoba deve massimizzare gli utili della sua strategia e agire tenendo conto del vincolo di efficienza che impone di ottenere risultati superiori ai costi costenuti.

Un’opera che potrebbe aiutare ad interpretare questa estate torrida caratterizzata dall’introduzione del reato di clandestinità, dai roboanti divieti contro i kebab e i burqini, dalle ripetute aggressioni a danno di coppie gay, rom e migranti.

Manifestazioni di xenofobia che appaiono rivolte alla “difesa della razza” e che invece sono l’espressione più visibile di strategie di marketing per nulla limitate al marketing politico o editoriale.

È sufficiente esaminare la comunicazione della maggior parte delle organizzazioni economiche italiane per notare come siano tutte impegnate, come osservato da Bernard Cova (Il Marketing tribale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2003), ad analizzare e comprendere l’uomo medio e di come la monocultura italiana – bianca, cattolica, normodotata, eterosessuale, iperattiva, politicamente moderata – domini tutta la loro strategia.

Le imprese italiane si dichiarano differenti, creative e innovative ma in realtà sono dominate dal pensiero unico e tutti i giorni lavorano per rafforzare la normalità, la tradizione, la ragione, la sicurezza, la tranquillità, il buon senso (nel gergo marketing, il mainstream).

Sono in gran parte terrorizzate dall’idea di contaminare la propria cultura e la propria immagine con “negri”, musulmani, gay ed handicappati e perdere così la clientela “normale” ben rappresentata da imprenditori e manager trentenni e glamour, da famigliole bianche, belle e felici.

E continuano a discriminare le donne come provato dal Gender Gap Index elaborato dal World Economic Forum che nel 2007 ha assegnato all’Italia la 101a posizione per la partecipazione economica e le opportunità offerte alle donne sulla base dei seguenti sottoindici: partecipazione alla forza lavoro 82a, retribuzione a parità di lavoro 111a, retribuzione 84a, posizioni manageriali 74a, posizioni professionali e tecniche 64a.

Il marketing è xenofobo. Ha letteralmente paura del diverso, dell’estraneo, dell’insolito. Spesso la xenofobia del marketing diventa razionale anche se – con eccezione dei partiti politici e dei media – la comunicazione non fa lo trasparire perché, per ora, esiste una normativa (i decreti legislativi 125 e 126 del 9 luglio 2003) che dovrebbe garantire parità di trattamento – indipendentemente dal genere, dall’origine razziale o etnica, dalla religione professata, dagli handicap, dell’orientamento sessuale, delle convinzioni personali e dell’età – nell’accesso al lavoro, negli avanzamenti di carriera, nella retribuzione, nella formazione, nella sicurezza sociale, nell’assistenza sociale, nell’istruzione e nell’accesso a beni e servizi.

Una normativa che dovrebbe essere fatta applicare dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) che dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio di Ministri e che non ha ancora pubblicato il rapporto relativo al 2008.
Ci ha pensato la Banca d’Italia (Antonio Accetturo e Sauro Moretti, L’immigrazione nelle Regioni Italiane in L’economia delle Regioni Italiane nell’anno 2008, Roma, 2009) a descrivere qual’è la reale strategia delle banche italiane nei confronti delle imprese avviate dagli immigrati.

“…Il costo del credito per le ditte individuali costituite da extracomunitari è, a parità di caratteristiche dell’impresa e dell’imprenditore, superiore di circa 60 punti base a quello per le ditte costituite da nati in Italia… L’aumento della lunghezza del periodo trascorso dal primo accesso dell’impresa al sistema bancario comporta una diminuzione del differenziale di costo applicato alle ditte di immigrati rispetto alle altre, suggerendo che possa riflettere una maggiore difficoltà iniziale nella valutazione del merito di credito. Tutti i tipi di banche praticano tassi di interesse più elevati alle ditte individuali straniere…Il differenziale di costo varia anche a seconda del continente d’origine: è più alto per gli immigrati provenienti dall’Asia e dall’Europa dell’Est.”

Dunque, secondo la Banca d’Italia, tutte le banche risulterebbero xenofobe e discriminanti nei confronti degli imprenditori immigrati, da molti considerati la migliore espressione del fenomeno migratorio. Anche quelle che mettono in bella mostra iniziative di migrant banking?

Ma sarebbe un errore pensare che la xenofobia razionale si sviluppi esclusivamente in ambito bancario o finanziario. Quante sono le discriminazioni quotidiane che vengono praticate senza clamore mediatico nei locali pubblici, nelle agenzie immobiliari, nei supermercati nei confronti delle coppie gay, dei portatori di handicap, degli obesi, degli anziani? Da imprenditori convinti che servire la normalità sia più redditizio, e meno rischioso, che accogliere la differenza.

In questo scenario cosa potrebbero (dovrebbero) fare i professionisti del marketing e della comunicazione non focalizzati esclusivamente sul breve termine?

Comprendere che la paura del diverso, la difesa del proprio gruppo sociale, l’esaltazione della tradizione e del territorio sono fenomeni naturali da ricondurre a dimensioni sostenibili e non da sfruttare per fare cassa a danno della coesione sociale.

Rifiutare di prestarsi a operazioni di marketing multiculturale o multietnico apparentemente sensibili alle diversità ma che in realtà sono finalizzate a sfruttare i bisogni insoddisfatti dei “diversi”.

Convincere i propri clienti della profittabilità, nel medio termine, di una strategia sensibile alle identità e attenta alle tendenze demografiche e contribuire così a spostare, lentamente, i confini del mainstream. E del marketing.

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