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MIXITÉ, MIX-APPEAL E L’ITALIA CHE VERRÀ

di Luca Massimiliano Visconti ed Enzo Mario Napolitano

Dicembre 2009 – Nel momento in cui scriviamo questa riflessione “ad alta voce”, e nello stesso istante in cui voi la leggete, in Italia già vivono oltre 5 milioni di migranti. Secondo l’ultima fotografia dell’ISMU – Iniziative e Studi sulla Multietnicità – si tratta di una popolazione molto eterogenea per provenienza (più di 200 gruppi nazionali), anni di residenza (circa il 70% con soggiorno superiore ai 5 anni), titolo di studio (scolarità più elevata della media degli italiani), sesso (più o meno parità tra donne e uomini stranieri), religione (32% di musulmani ma ancora oggi dominanza dei cristiani) e titolo di soggiorno (nuovi cittadini, regolari, irregolari/clandestini). Un quadro per certi aspetti scoraggiante per il ricercatore tanto quanto per il politico, dal momento che la velocità del fenomeno, la sua vitalità e costante trasformazione, la rilevanza che già ricopre (circa l’8% della popolazione italiana, il 10% del PIL nazionale e un mercato da oltre 40 miliardi di euro all’anno) rendono ancora più difficile riuscire nella sua corretta lettura e nel conseguente governo.


Uno dei nodi critici nel parlare di immigrazione è, a nostro avviso, la strumentalizzazione ideologica, e in ultima istanza politica, del tema. Purtroppo le maggiori forze politiche, da qualsiasi parte dello schieramento si voglia guardare, hanno fatto dell’immigrazione un facile vessillo per guadagnare consensi elettorali e per marcare distanze non facilmente riducibili. Guidati da vuote ideologie, si è perso così il distanziamento critico necessario per poter ragionare pragmaticamente, eticamente e collegialmente dei concreti problemi e delle evidenti opportunità apparecchiati sul tavolo delle decisioni.


Allo stesso modo, un secondo ambito di spesso distorta analisi dell’immigrazione è il mondo dei media. Ricerche hanno messo in evidenza uno scenario per lo più sconfortante, in cui l’immigrato è dato in pasto allo spettatore a fini di audience. Telegiornali, servizi di “approfondimento”, radio e stampa tendono a presentare l’immigrazione come problema, ora di sicurezza pubblica, ora di invasione del territorio, ora di attentato all’autenticità della cultura italiana. Come se poi in Italia si potesse parlare di unicità della cultura nazionale…


Non c’è da sorprendersi, dunque, che una terza sfera in cui si sta giocando la partita del confronto interculturale sia rimasta sinora per lo più ai margini delle rappresentazioni collettive, delle riflessioni accademiche tanto quanto di quelle mediatiche e della nostra progettazione (politica, economica, sociale). Si tratta dell’economia di mercato che, se domina la vita degli autoctoni, sembra invece non interessare altrettanto centralmente l’esperienza di vita dei migranti. Forse ci si immagina che non consumino (“in fondo, sono qui per poco e solo per lavorare”), che non possano consumare (“hanno pochi soldi, anche perché spesso tagliamo le loro retribuzioni”), che non sia così rilevante per loro cosa consumano (“i nostri consumi sono migliori dei loro”) né cosa vorrebbero consumare (“finché son qui devono adattarsi”). Tutto falso. Molti sociologi da tempo vanno affermando che il consumo nella società del (preteso) benessere sia più importante per definirci del lavoro che svolgiamo. “Consumo dunque sono”, verrebbe da dire. Una revisione postindustriale del “cogito” cartesiano. Una rappresentazione delle nostre identità e delle appartenenze sociali attraverso le nostre costellazioni di consumo.


E in effetti, se ci si prende il disturbo di andare a parlare con questi consumatori migranti, di chiedere loro cosa mangino, quali programmi televisivi seguano, con quale musica alleggeriscano i loro pesi o di quali oggetti amino circondarsi, ci si rende conto che il mondo dei consumi è un potente vettore di integrazione, assimilazione, resistenza, intercultura. In anni recenti, abbiamo curato due volumi sul consumo dei migranti, affrontando inizialmente il tema del consumo delle prime generazioni (cfr. Fiorio, Napolitano e Visconti, Stili migranti, 2008, Etnica) e successivamente l’altra metà del cielo, con i consumi delle seconde generazioni, che noi abbiamo preferito definire “cross generation” (cfr., Visconti e Napolitano, Cross Generation Marketing, 2009, Egea). Siamo consapevoli che si tratta di un primo, incompleto e decisamente perfettibile risultato. Già così, comunque, il quadro che ne deriva parla di un mondo un po’ diverso da quello solitamente rappresentato nel linguaggio della politica o dei media.


I consumi riproducono tutta la varietà di posizioni soggettive, di differenze etnico-culturali, di conquiste o emarginazioni che i migranti e i loro figli affrontano nel quotidiano. Si pensi al dibattito intorno all’uso del velo per donne e giovani musulmane o per l’affissione del crocefisso in luoghi pubblici, come scuole e ospedali. E’ evidente che simili consumi si caricano di forti valenze simboliche, culturali, politiche che danno forma ai margini di legittimità, di prevaricazione e di conflitto tra migranti e non. A parere di chi scrive, l’esempio del velo è illuminante. Se pare inaccettabile un uso tale da impedire la riconoscibilità della persona, in linea con quanto previsto costituzionalmente, non si capisce invece l’ostracismo verso una forma di manifestazione della propria appartenenza religiosa quando liberamente scelto dalla donna e usato consapevolmente. Non dovremmo allora vietare parimenti i rosari e le croci, per altro ormai più in voga come accessori di moda che come icone di un sentito legame religioso?


In aggiunta a questo, i consumi stanno offrendo un contenuto concreto al tema della tanto sbandierata intercultura. In molti contesti si sentono usare i termini di integrazione, intercultura, multiculturalismo. Vi sono stati anche interessanti tentativi di misurare, e dunque di definire nel concreto, questa integrazione dei migranti. Solo per citare alcuni esempi di rilievo, la Commissione presieduta da Giovanna Zincone ha pubblicato nei lontani anni 2000 e 2001 due “rapporti sull’integrazione degli immigrati in Italia”. Da tempo, una società di ricerca sociale di Milano, Synergia, sta lavorando in un confronto internazionale sulla messa a punto di un paniere di indicatori dell’integrazione socio-professionale degli stranieri. E, ancora più recentemente, nel 2009 l’ISMU ha pubblicato un primo rapporto sempre sull’integrazione degli stranieri. Insomma, capire e poter stabilire il livello di integrazione diviene elemento centrale per poter prendere la temperatura a un paese che ha ormai stabilmente cambiato faccia, struttura, dinamiche.


Sia i tentativi in questione sia i riferimenti di psicologia transculturale richiamano al principio che questa “mixité”, come ci piace chiamarla, sia da apprezzare non solo sul fronte dei migranti ma anche parallelamente su quello degli italiani. L’integrazione è un Giano bifronte, coinvolge inevitabilmente i due lati della relazione che si viene a instaurare per semplice effetto del condividere il medesimo territorio e, più spesso (per fortuna!), anche una simile progettualità: creare una famiglia, garantire un futuro ai figli, comprarsi una casa, studiare, stabilire delle relazioni sociali, concedersi dei consumi.


In questa prospettiva, parlare di immigrazione e della correlata mixité dovrebbe dunque significare interessarsi non solo di come i migranti e i loro figli elaborino riferimenti culturali, stili di vita e pratiche di consumo degli italiani, ma anche del processo inverso. Noi italiani impariamo dai migranti. In questi anni di lavoro sul campo, abbiamo sentito dire a medici italiani (ad esempio ostetrici, pediatri, psichiatri e molti altri) che il confronto con i pazienti stranieri li ha migliorati rispetto alla qualità di relazioni stabilite con gli altri pazienti italiani. Galleristi e critici d’arte dichiarano il proprio interesse per proposte creative ispirate o provenienti da altri paesi, non troppo diversamente dalle fascinazioni orientaliste/esotiche già espresse nel passato riscontrabili, tra gli altri, nel gusto Impero così come nella pittura del primo Novecento: cosa sarebbe stato del Picasso cubista senza l’iconografia africana o degli interni di Matisse senza i richiami al Giappone? Tutti noi, in qualità di consumatori e in linea con le nostre inclinazioni, gioiamo inoltre di musiche latino-americane, di cinema africano, di artigianato etnico, di cibo esotico, di vacanze all’estero, e simili “memorabilia”. Sono proprio le qualità insolite, per certi versi eccezionali, presenti in queste esperienze di consumo a sottrarci dalla noia del quotidiano e a consentirci viaggi restando a casa, allargamenti dei nostri orizzonti e nuove suggestioni. A volte ci limitiamo a vivere tutto questo quasi inconsapevolmente, senza vero approfondimento. Quanti di noi hanno fatto ricerca sulla cultura giapponese pur essendo frequentatori assidui di sushi bar o bevitori di tè verde? Altre volte, invece, queste sperimentazioni sono precedute e/o seguite da altre e complementari esperienze. Un corso di tango può portare a visitare i paesi da cui è originato, a seguire stage internazionali, a cercare ristoranti a tema e a leggere letteratura affine.


Insomma, non ci sono percorsi rigidamente tracciati nella navigazione della mixité. Per certi versi, ciò che rende la mixité una fonte di mix-appeal è proprio il suo essere struttura aperta, in cui gli attori del processo – migranti e autoctoni, con pari dignità e uguali opportunità – possono costruire la narrazione e i suoi esiti “nel mentre”. E’ un processo in fieri, in cui gli attori si confrontano dalle reciproche posizioni, che saranno tanto meno ideologiche quanto più consentiremo loro di esprimersi serenamente.


Allo stesso tempo, vivere e progettare la mixité non deve risultare un processo anarchico. Siamo convinti che la costruzione di una società interculturale debba essere un gioco con regole precise e possibilmente condivise tra i giocatori, il cui esito resti tuttavia inevitabilmente aperto. Questo ragionamento non è troppo diverso dal percorso educativo di un bambino. Se è necessario che ogni processo educativo sia accompagnato da regole, sono altrettanto evidenti gli effetti distorsivi di progetti educativi pre-confezionati e unilateralmente calati. Un genitore dovrebbe mantenere una funzione referenziale e normativa, senza per questo imporre la propria progettualità su quella del figlio. Purtroppo, oggi ci sembra che molte delle riflessioni sulla mixité partano dandosi l’obiettivo sbagliato. Si propongono di definire “l’end state”, il punto di arrivo cui tendere, non di stabilire le regole di convivenza. La questione è piuttosto di definire i requisiti di cittadinanza (“ius sanguinis” versus “ius soli”), i confini di accoglimento delle diverse abitudini e leggi (per esempio, vietare l’infibulazione non è rifiuto dell’altro ma rifiuto di una pratica inaccettabile in un preciso contesto normativo e sociale), le regole della partecipazione politica, il diritto e i limiti all’espressione religiosa, la gestione partecipata dell’immigrazione a livello di Comunità Europea, e molto di più.


Di nuovo, la gestione del mercato non è esente da queste logiche e per molti aspetti le precorre nella pratica. Già oggi possiamo osservare imprese italiane o multinazionali che iniziano a rivolgere offerte mirate ai consumatori stranieri. Innumerevoli sono gli esempi nel banking, nell’editoria, nella telefonia, nel mondo del retailing e, da tempo, nei servizi pubblici (sanità, scuola, formazione professionale, accompagnamento al lavoro, etc.). Allo stesso modo, possiamo anche trovare molti esempi di imprese gestite da stranieri che elaborano una proposta “etnica”. Sono quelle che spesso si chiamano imprese identitarie. E’ probabilmente diverso (né meglio né peggio, si intenda) ricevere un prodotto del paese di origine da una grande catena di supermercati italiani o da un negozio etnico sotto-casa. La grande catena facilita i processi di prova del prodotto anche da parte degli italiani e così legittima socialmente la presenza degli stranieri presso il grande pubblico. Inoltre, offre maggiore convenienza, molto spesso migliore freschezza e frequenza o costanza degli approvvigionamenti. Dal canto suo, il negozio etnico è un luogo di socialità, di radicamento identitario, uno strumento per supportare altri membri del gruppo etnico o, per un italiano, una meglio, sia sotto il profilo economico sia di equità sociale, è tuttavia necessario rivedere le dinamiche politiche e mediatiche con cui abbiamo
aperto questa riflessione. Quali imprese di grandi dimensioni potranno serenamente rivolgersi al target migrante finché quest’ultimo è usato ideologicamente nel confronto politico e impropriamente stereotipato nel dibattito dei media?

In questo contesto, servire “lo straniero” assume il senso di una presa di posizione politica, per non parlare delle associazioni negative di immagine che un target così poco “blasonato” porta con sé. Per riuscirci bisogna disporre di una forte, e controcorrente, identità di marca e di una cultura aziendale aperta alle identità. Non a caso aziende come Ikea, Benetton, HSBC o Campari hanno preso una posizione forte al riguardo, potendo trovare nel proprio DNA organizzativo un forte orientamento alla valorizzazione del preteso “diverso”. Più frequentemente, invece, le altre aziende si rivolgono ai migranti sotto voce, usando strumenti di comunicazione meno visibili al pubblico di massa, come le affissioni sui mezzi pubblici, le testate etniche, gli internet point o i centri di money transfer. In questo modo, il cliente straniero è raggiunto, ma nessuno lo sa. Nessuno si lamenta troppo. Il profitto cresce. Lo straniero resta nell’ombra e con lui/lei si affievolisce la nostra opportunità di ricevere di più dalle stesse imprese che ci temono.


Luca Massimiliano Visconti
Direttore del Master in Marketing e Comunicazione dell’Università Luigi Bocconi di Milano
luca.visconti@unibocconi.it

Enzo Mario Napolitano
Presidente di Etnica, il network per l’economia interculturale, www.etnica.biz
enzomario.napolitano@unito.it

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