Roma, 30 dicembre 2022 – “Se non sei libico, sopravvivere lì è quasi impossibile. Ho visto gente picchiata, torturata, stuprata. Non immagini neanche cosa possano fare a un uomo, non hanno limiti. Guarda lui”, dice indicando un uomo che non riesce più a parlare, a camminare, a mangiare da solo. “C’è chi si spezza”. A parlare è Mahmoud, un artista ricamatore proveniente dalla Libia e ora in salvo sulla Ocean Viking. La sua storia si collega direttamente a quella degli altri migranti a bordo. Come se ci fosse un fil rouge, invisibile ma percepibile. Un filo fatto di sofferenza.
Storie di migranti dalla Ocean Viking
A dare voce ai migranti salvati dalla Ocean Viking è Alessia Candito, inviata di Repubblica. Con una serie di dettagli che si susseguono, racconta con precisione una giornata qualunque a bordo della nave. Più precisamente il giorno di lavanderia. I vestiti sono ovunque: alcuni stesi ad asciugare, altri sul tavolo in attesa di essere lavati. Di far andare via tutto ciò che quegli abiti, così come i padroni, hanno subìto. Su un paio di pantaloni si leggono, ben segnati, dei nomi e dei numeri di telefono. “Quella roba è mia”, dice un ragazzo prima di spiegare, con naturalezza disarmante, che i numeri erano della madre e della sorella. “Se mi fosse successo qualcosa, qualcuno magari avrebbe mostrato pietà e le avrebbe avvertite“. Insomma, se fosse morto in un naufragio.
La vita sulla Ocean Viking scorre lenta. Ma quello che più salta agli occhi della giornalista è la normalità del passare delle ore: c’è chi si fa i capelli, chi la barba. I bambini giocano, disegnano, litigano come in una qualsiasi scuola. A occhi distratti la prima impressione è questa. Poi, però, come uno schiaffo improvviso, la realtà si fa più concreta. I migranti a bordo della nave sono persone traumatizzate, che probabilmente mai si riprenderanno da ciò che sono stati costretti a vivere. Sono persone spezzate nel profondo. Donne che hanno trascorso anni a fare le domestiche in Libia, lo stesso luogo nel quale sono state sfruttate, stuprate, picchiate, rese letteralmente cose da usare a piacimento.
“In Libia se ti prendono e non puoi pagare, rischi di non uscire per anni dai centri di detenzione, o di non uscire più. Lì ho visto gente massacrata, torturata, ammazzata per nulla. Tutti hanno armi, tutti le usano”, racconta Hassan, un giovane sarto di soli vent’anni partito dal Gambia. La sua esperienza libica è stata così traumatica che, nonostante non sapesse nuotare, ha deciso comunque di salire su un barcone diretto in Italia. “Ero seduto vicino ai bambini, quello piccolissimo era vicino a me, piangevano tutti. Ero terrorizzato per loro. Quando vi ho visto sono scese le lacrime anche a me, ma erano di gioia“, ha ammesso.
Ricorda perfettamente ogni momento: l’attimo in cui i soccorritori hanno puntato la torcia contro il gommone. La paura che fossero i libici. Il sollievo successivo di chi ha urlato: “Siamo un’organizzazione umanitaria, adesso state tranquilli e vi porteremo al sicuro su quella grande nave laggiù”. La sensazione di avercela fatta, di poter tornare a vivere.
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