Un racconto dell’autore bosniaco Boidar Stanišić
Sì, ricordo bene: era una calda giornata d’estate del ’62; Adem, il barbiere, nella sua bottega a due passi dalla mia casa natia a Visoko, in Bosnia, mi tagliava i capelli. In un istante l’ombra di un camion coprì l’interno della bottega. Dalla cabina scese un uomo che, con una strana pronuncia , chiese al barbiere come avrebbe potuto arrivare alla conceria. Adem, con le sue forbici uscì fuori e gli spiegò dove dirigersi. Quell’ombra in poco scomparve.
"E’ di Nova Gorica…" mi disse Adem continuando a tagliarmi i capelli.
"Dov’è Nova Gorica?" un pò incuriosito chiesi ad Adem.
"E’ lontano… In Slovenia. Lì, un pò più a sud, vicino a Trieste, feci il servizio militare per cinque anni! Tre volte mi toccò fare la fila alle porte del magazzino della caserma per sdebitarmi dalle armi, tre volte si udì il suono della sirena, tre volte il mio sergente mi disse: Soldato Adem, verso casa non si parte!"
Quella volta ero solamente un bambino e cinque anni mi sembravano una vita! Mi toccava appena frequentare la prima elementare. Giocavo dalla mattina alla sera, non sapevo nè leggere, nè scrivere,cosi come non conoscevo i lati del mondo e neppure dove si trovasse la città di Trieste. E le città conosciute per me erano quelle in cui vivevano le mie zie e gli amici dei miei genitori.
"Però, se esiste Nova Gorica, dovrebbe esistere anche la Vecchia Gorica?" chiesi ad Adem.
"Si chiama Gorizia, e non è nostra!" disse alzando la mano verso un punto indeterminato. "E’ in Italia… Le due città sono vicine ma divise dal confine."
Non sapevo che cosa fosse un confine.
Tornai a casa e chiesi spiegazoni a nonna Zorka. La vecchia pronunciò un hm-hm -confine-proprio-confine, se ne andò in camera sua portando un vecchio libro. "E’ del mio povero fratello Simo, un manuale di geografia dei tempi dell’Imperatore Francesco Giuseppe…" Lo aprì e trovandovi una carta geografica d’Europa con il dito mi mostrò le linee nere che, disse, dividono vari stati.
Più di quelle linee nere però, ricordo il profumo di mele cotogne che la vecchia metteva nel suo grande baule di vestiti accanto i quali c’erano alcuni oggetti a lei cari, fra cui le cartoline di Simo, spedite da una cittadina ungherese in cui fece il servizio di leva ed il cui nome lunghissimo mi faceva ridere: Piliszvereszvarosz. (Cadde sul fronte in Galizia, nella prima guerra mondiale. Il ricordo del fratello era una delle ragioni per cui alla nonna Zorka verso il crepuscolo piaceva affacciarsi alla finestra e stare sola?)
*
Oltre all’esempio dell’ex Unione Sovietica non vi è un area geografica in cui, dopo la seconda guerra mondiale, i confini si sono moltiplicati così come nel caso dell’ex Jugoslavia. Quindici anni fa, se qualcuno mi avesse chiesto quanto tempo ci sarebbe voluto per impedire ad un autista di Sarajevo di raggiungere i confini esterni della Jugoslavia ,come avrei dovuto rispondere? Dicendo, semplicemente: Molto! E oggi – sopratutto in Bosnia, per tre anni palcoscenico di una guerra civile assurda e vergognosa – dove sono i confini?
"A un passo dalle case di ciascuno di noi!" scherza ironicamente un mio amico d’infanzia rimasto nel nostro Paese. So benissimo che la sua ironia esprime una certa amarezza non soltanto per i confini statali, in realtà raggiungibili in due-tre ore partendo da Sarajevo, ma pure per quegli interni: la Bosnia-Erzegovina (spesso chiamata "di Dayton") è divisa in due entità (la Federazione croato-bosniaca e la Repubblica serba); esemplare pure anche per altre oasi di convivenza multiculturale in Europa e nel mondo. Una volta lui mi chiese che cosa pensassi della dissoluzione riguardante la lingua serbo-croata, quel modello linguistico comune che oggi in Bosnia è diviso in tre lingue: serba, croata e bosniaca. Allora scherzai e dissi: "Chiedi a me, che scrivo ancora in yiddish?" Lui rimase sorpreso: "Quale yiddish?" Gli tolsi l’imbarazzo: "Il serbo-croato…"
Proseguimmo a scherzare. Lui mi domandava, io gli rispondevo.
"Come si dice in croato: Ja pijem pivo?"
"Ja pijem pivo! Ma in quale lingua mi hai chiesto?"
"Ascolta e non fare caos! Ora rispondi come si dice in serbo?"
"Ja pijem pivo!"
"Bravissimo! Si vede che hai studiato lingue! E in bosniaco?"
"Ja pijem pivo!"
"Bravo! Una volta prof, sempre prof!"
Da me, in Friuli, dove abito dal ’92, non è mai venuto. Disse che nell’ Ambasciata italiana a Sarajevo oltre all’elenco di carte da presentare più lungo di un tappetto mancava solo la richiesta delle taglie di camicie e mutande. "E’ umiliante," ripetè due volte. Nei suoi occhi, per un istante incolori, vidi come si scioglieva quell’idea d’Europa una volta da lui vista come una casa con molte finestre, mai lontane una dall’altra. I visti non ci servivano nè per andare a Trieste, nè a Roma, nè a Parigi, nè a Budapest o Praga, e Lubiana era una delle nostre città.
(Una mia vecchia vicina di fede mussulmana, sette anni fa, quando l’Ambasciata degli USA a Sarajevo respinse la sua richiesta per il visto, entrò senza permesso nell’ufficio dell’ambasciatore e gli disse: "Ecco me ed ecco lei, signor ambasciatore! Nel suo Paese vive mio figlio con la famiglia. Se le sembro una criminale, non mi faccia sto maledetto visto!" E il signor ambasciatore? La guardò in faccia e con un lieve sorriso diede ai suoi impiegati l’ordine per il rilascio del visto.)
*
Fino all’11 settembre 2001 pensare i confini per me significava pensare l’Europa. (Massimo Cacciari, pensandola come un’arcipelago le cui isole comunicano fra loro, credo ci offra una delle visioni più complesse.) Dopo quella data pensare i confini per me significa pensare il mondo, sopratutto i muri che si stanno costruendo. Anni fa ho vissuto con l’amarezza più profonda l’immagine della Biblioteca Nazionale a Sarajevo in fiamme e la distruzione del Ponte Vecchio a Mostar. In entrambi i casi riscontravo un’intenzione chiara: distruggere il passato che ci collegava e tracciare un futuro opaco, con confini e barriere. Spesso ricordavo l’immagine profetica di Ivo Andric, "il ponte di pietra tagliato a metà". (Era un pò di moda allora considerare la Bosnia come la Gerusalemme d’Europa). In qualche modo paralellamente con la costruzione del Muro in Israele, è incominciata un altra moda: parlare dello scontro fra le civiltà.
Ho avuto e ne ho delle esperienze talmente concrete che quasi mi vergogno ad usare un immagine per pensare i confini, non precisando come e dove li vivo. Quando sento la parola clandestini, vedo una panca, le inferriate e le pareti incolori di una stanzetta della stazione di polizia a S***, in Slovenia, dove nell’estate del 1992 fui recluso in attesa dell’atto di espulsione. Per i poliziotti e il giudice il fatto che fossi fuggito dalla guerra non aveva nessun significato. La Convenzione di Ginevra mi sembrava uno straccio. Alla fine fui costretto a scegliere fra l’Austria e l’Italia. "L’Italia," dissi, essendo vicina al confine italo-sloveno.
La mia casa, a Zugliano, ha le sue finestre orientali e quelle occidentali. Dalle prime vedo le montagne in Slovenia. Nei giorni d’aria limpida riesco a vedere le cime del Tricorno, a sua volta montagna più alta della Jugoslavia. Sono vicino a Gorizia e pure a Trieste (per la quale il mio barbiere d’infanzia fece cinque anni di servizio militare). Per molti occidentali, ancor oggi, sono i punti d’inizio dell’Est Europa. Le mie finestre occidentali mi offrono la vista sui tetti del Centro d’accoglienza per immigrati stranieri, profughi e richiedenti asilo "Ernesto Balducci", dove all’inizio della mia permanenza in Italia, ero ospite con la mia famiglia. E più lontano, a una quarantina di chilometri, si vedono le cime del Piancavallo. Ai piedi della montagna si trova Aviano, cittadina che ospita la base USAF, luogo da cui, con scuse di guerre umanitarie o quelle d’antiterrorismo, decollavano i caccia bombardieri. Pare che io sia uno dei testimoni di questo confine invisibile ma netto fra due scelte della nostra Storia in Movimento: della pace, della solidarietà e del dialogo da una, e della prepotenza e del monologo dall’altra parte.
Queste scelte fanno parte dei temi preferiti della mia officina letteraria. Esistono allora finestre che davvero servono a qualcosa?
Boidar Stanišić (Visoko, Bosnia,1956) già professore di lettere a Maglaj (località a nord di Sarajevo), dal 1992 vive con la sua famiglia in Friuli, a Zugliano. Oltre a offrire il suo contributo letterario, pubblicistico ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili dei rifugiati e degli stranieri, Stanišić ha sempre collaborato alle iniziative culturali dell’Associazione – Centro di accoglienza “E. Balducci”, con cui ha già pubblicato tre raccolte poetiche: "Primavera a Zugliano", "Non-poesie" e "Metamorfosi di finestre". Alla fine del 2008 sarà pubblicata una antologia di sue non poesie in bilingue ("Kljuc na dlanu/La chiave sul palmo"). Diverse di queste liriche sono state incluse nelle raccolte "Quaderno Balcanico, Cittadini della poesia", collana diretta da M. Lecomte (1998), "Conflitti – Poesie delle molte guerre", a cura di I. Landolfi (2001) e "Ai confini del verso", a cura di M. Lecomte (2006), pubblicata anche in inglese, negli USA. In prosa, oltre a numerosi contributi letterari e saggistici in riviste e quotidiani, ha pubblicato la raccolta di racconti "I buchi neri di Sarajevo" (1993),"Tre racconti "(1998), "Bon voyage" (2003). Ha pubblicato anche un testo teatrale: "Il sogno di Orlando" (2006). "Il cane alato e altri racconti" (2007) è la sua opera narrativa più recente. Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti anche in sloveno, inglese, francese, albanese e giapponese. Scrive sia in serbo-croato, che in italiano.