Ancora sangue a Torpignattara, dopo l’omicidio di Xhou Zeng e Joy, botte e coltellate a tre bangladesi. Immigrati vittime dell’insicurezza, in periferie che l’inerzia dello Stato rende sempre più “straniere”
Roma – 23 gennaio 2012 – “Hai un sigaretta?”, “No, non fumo”.
Una risposta sbagliata (ma chissà qual’era quella giusta) ha dato il via venerdì notte al pestaggio di Mojbor Rahman. Accerchiato da tre ragazzi mentre usciva dalla sua casa a Torpignattara, Roma, per andare a lavorare come tanti altri bangladesi al mercato di Piazza Vittorio, è stato colpito al volto e rapinato, mentre i suoi due cognati, intervenuti per difenderlo, sono stati accoltellati.
“Noi della comunità degli immigrati residenti nel quartiere denunciamo la mancanza di sicurezza e di protezione da parte delle forze dell’ordine. Le strade sono piene di delinquenti, teppisti e criminali. Siamo sempre noi ad essere aggrediti e impauriti dai delinquenti” dice Raman Shah, presidente del comitato che ieri ha organizzato a Torpignattara un sit in di protesta.
“No alla violenza, più sicurezza” è stato anche lo slogan del corteo della comunità cinese scesa in strada due settimane fa, dopo l’assassinio di Xhou Zeng e della piccola Joy, nello stesso quartiere. E c’è voluto lo sterminio di una famiglia per far sapere al grande pubblico che i commercianti cinesi convivono con la minaccia costante di rapinatori e taglieggiatori.
Si svela così la distorsione di anni di propaganda su immigrazione e insicurezza, che ha dipinto gli immigrati come causa e non come vittime del problema. Gli immigrati, invece, hanno paura. Perché vivono nei ghetti, perché vanno a lavorare all’alba o si ritirano di notte, perché sono donne sole, ambulanti, commercianti aperti quando le altre saracinesche sono chiuse. Perché a volte non hanno il permesso di soggiorno e quindi non chiameranno mai la Polizia.
Al melting pot delle vittime corrisponde, banalmente, anche un melting pot dei carnefici. Quelli di Xhou Zeng e sua figlia erano marocchini. E anche se finora l’unico fermato per l’aggressione di sabato è un sedicenne romano, che ad aprile aveva picchiato un altro straniero seguendo il solito copione dell’ “hai una sigaretta?”, gli investigatori sospettano faccia parte di una baby gang multietnica già responsabile di altre rapine e pestaggi.
Figli di italiani e figli di immigrati insieme, sulla strada della violenza. Un esempio di integrazione al ribasso, dove si è finalmente tutti uguali, ma nel peggio. Un segnale che dovrebbe farci chiedere ancora una volta se sia l’immigrazione a condannare le Torpignattara d’Italia o se, piuttosto, non sia la resa dello Stato nelle sue periferie a far sentire straniero e fuorilegge chi ci vive.
Non sarà solo qualche volante della Polizia in più a risolvere il problema, perché nei ghetti c’è la criminalità, ma c’è innanzitutto il disagio sociale, abitativo, scolastico di cui la criminalità si nutre. Un incubatore straordinario di violenza, anche xenofoba, che non scompare certo quando arrivano lampeggianti e sirene.
Le periferie multietniche sono state descritte due anni fa, in una ricerca commissionata dal Viminale, come potenziali bombe. Il sindaco Alemanno dice che l’episodio di venerdì notte “va valutato attentamente, ma non va enfatizzato”, il ministro Riccardi sottolinea la necessità di ”assicurare sicurezza e legalità a tutti, italiani e stranieri”. Intanto il tempo corre e si sente la puzza della miccia che brucia.
Elvio Pasca