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“Milanese con il velo, com’è difficile trovare lavoro”

Lettera aperta di una seconda generazione. “Anche per un tirocinio in Comune, mi hanno detto che l’hijab  poteva essere un problema”

Roma – 27 giugno 2011 – Essere una seconda generazione, in Italia, non è semplice. Se poi porti il velo è ancora più complicato.

 

Lo racconta Sama, una venticinquenne milanese di origine egiziana, in una lettera pubblicata oggi sull’edizione locale di Repubblica.   “Sono nata in Egitto ma mi sento milanese” dice, spiegando di essere arrivata nel capoluogo lombardo quando aveva sedici anni e di essersi  laureata in Scienze Politiche alla Statale per poi mettersi alla ricerca di un posto di lavoro.

“Per il velo islamico che indosso, superare un colloquio di lavoro è un’impresa ardua” denuncia la ragazza. Sama, che è di fede islamica,  indossa lo hijab, fazzoletto che copre il capelli ma lascia completamente visibile il volto: “Ogni volta, – scrive – dopo un iniziale interesse manifestato al telefono da parte dei miei interlocutori per il mio curriculum, ho dovuto confrontarmi con la freddezza e l’imbarazzo palpabile di chi si trovava di fronte una ragazza velata, come me”.
Che il velo possa diventare un handicap glielo hanno confermato anche nell’ultimo colloquio, quando si proponeva per un tirocinio al Comune di Milano.

“La funzionaria che ho incontrato – spiega Sama – mi ha fatto diverse domande per farmi spiegare i motivi per cui lo porto e mi ha spiegato che lavorando in un ufficio pubblico, lo ‘hijab’ avrebbe potuto essere un problema. Le stesse osservazioni che mi erano state fatte in un precedente colloquio per un posto da mediatrice culturale. Le stesse frasi che tante altre volte ho dovuto ascoltare, presentandomi per un colloquio di lavoro in negozi e uffici privati”.

“È questa – si chiede la ragazza – la sorte scontata per chi, come me, vivendo a Milano, pur venendo dall’Egitto ed essendo di fede musulmana, non si sente straniera? Sono cresciuta nella vostra cultura anche se indosso il velo: quanto a lungo dovrò restare disoccupata? Dovrò rinunciare a un mio modo di sentire e di essere per poter sperare di essere considerata come tutti gli altri giovani laureati milanesi?”.

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