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Bambini soli nell’hotspot di Pozzallo, “Quando andiamo via?” 

Centoquaranta minori stranieri non accompagnati, tra gli undici e i diciassette anni, sono da un mese nel centro di identificazione, in attesa di trasferimento. Beni (Pd), Arci e Caritas: “Inaccettabile che stiano lì”

 

Pozzallo (Ragusa) – 14 maggio 2016  – “Tomorrow, tomorrow, they say always tomorrow…” L’attesa dei minori soli nell’hotspot di Pozzallo si alimenta di una promessa che non si avvera mai,  “Partite domani”. 

Sono centoquaranta bambini e ragazzi, tra gli undici e i diciassette anni. Vivono in un capannone giallo circondato da un recinto, chiuso tra lo stradone che arriva in paese, il porto e gli scogli artificiali. Attraverso le inferriate vedono lo stesso mare che ha risparmiato loro la vita prima che fossero  soccorsi nel Canale di Sicilia. O la campagna ragusana che vorrebbero lasciare per proseguire il loro viaggio. 

Dal Burkina Faso, dal Senegal, dal Gambia, dalla Nigeria e da altri Paesi africani sono partiti senza i genitori, spesso per raggiungere qualcuno che è già riuscito ad arrivare in Europa. Da settimane, alcuni anche da più di un mese, attendono che l’Italia che li ha salvati faccia il passo successivo, trovando posto per loro nei centri per minori soli e inserendoli in un percorso di tutela e integrazione che qui è impossibile. 

Mentre i loro coetanei italiani scoprono il mondo su Google maps, loro ne hanno attraversato un bel pezzo in un viaggio terrificante per qualunque essere umano. A piedi, sui camion, sui barconi. “Sono passato da Guinea francese, Senegal, Mali, Burkina Fasu, Niger, Libia. Lì siamo rimasti due mesi nascosti, se ti prendevano finivi in prigione. Poi abbiamo preso il barcone ed è arrivata la nave italiana” racconta uno di loro. “Ora stiamo fermi qua, sempre qua.  Quando andiamo via?” 

La maggior parte del tempo la passano in un’enorme camerata affollata di letti a castello o nella camera più piccola che tocca a quelli che danno problemi. “Gli egiziani li hanno messi là, perché si lamentavano e facevano casino” raccontano. È facile perdere la pazienza, quando i giorni sono tutti uguali. “Non facciamo niente, dormiamo e mangiamo”. Non giocate nemmeno a pallone? “C’è solo asfalto e ho solo queste” spiega  guardandosi le ciabatte uno di loro.

Teoricamente possono fare telefonate, ma come? “Appena arrivato mi hanno dato tre schede telefoniche. Con ognuna sono riuscito a parlare solo tre minuti, poi è finita. Sono qua da un mese e un giorno e non me ne hanno date più”.  Qualcuno si lamenta per i pasti, “è poco, non è buono”, ma sembrano critiche da adolescenti con una fame da lupo, non è quello il problema.

Un paio di ciabatte, una tuta, una maglietta. La divisa dei bambini e dei ragazzi di Pozzallo. Due hanno scarpe da ginnastica nuove. “Gliele hanno regalate in paese” spiegano i compagni. Il paese è a due chilometri, bisogna percorrere la statale, passare accanto al porto, ai rimessaggi, tagliare per la spiaggia e imboccare il lungomare dal “piazzale dei Marinai” , e chissà se capiscono la targa un po’ più in là, quella di “Via dei pozzallesi emigrati”.

In questi giorni li vedi da lontano percorrere sotto il sole a gruppetti lo stradone che porta all’hotspot. Qualcuno si ferma sulle panchine del lungomare. Altri passeggiano per le vie di Pozzallo affollate di volontari, operatori umanitari, esperti di immigrazione, attivisti, artisti e giornalisti arrivati per il Festival Sabir. Chissà se nei loro letti a castello, nel capannone circondato di sbarre, arriva la musica dei concerti serali.  

In paese, per settimane, non ci sono potuti andare. Secondo uno di loro  “non dovevamo farci vedere dalla gente”, altri assicurano che il motivo era che “siamo minori e non ci potevamo muovere senza il documento”. Il lasciapassare per le ore d’aria è un foglio di carta con una data di arrivo, un nome, una foto accanto a un cartello con una lettera e una cifra, le stesse scritte con un pennarello indelebile sui braccialetti di plastica bianca che portano al polso. “Chi ha la stessa lettera è arrivato lo stesso giorno”. 

Esercito, poliziotti e carabinieri custodiscono la struttura che sulla carta dovrebbe servire solo a identificare velocemente chi arriva, prima di smistarlo verso altre destinazioni. “Un poliziotto è cattivo, non ci fa mai uscire dallo stanzone. I carabinieri sono più bravi, sorridono e ci fanno stare fuori”, umanità varia in divisa giudicata da un ragazzino. C’è il medico per chi si sente male, un’ambulanza per  casi più gravi. Ci sono gli operatori di una cooperativa. 

Quando li intervistiamo l’hotspot ospita solo minori, ma di qui passano anche gli adulti, che però rimangono poco, vengono identificati e vanno via. “È meglio essere maggiorenni”. Quegli adulti, però, durante i pochi giorni che servono per dividerli tra richiedenti asilo e migranti economici da espellere, vivono insieme a loro. “Dormono nello stanzone con noi” raccontano tutti i minori con cui abbiamo parlato. Una circostanza che, se verificata, striderebbe con uno dei più basilari obblighi di tutela. 

I giornalisti  non possono entrare nell’hotspot. Il pomeriggio del 13 maggio ci sono entrati il vicepresidente dell’Arci Filippo Miraglia, il responsabile immigrazione della Caritas Oliviero Forti e il deputato del Partito Democratico Paolo Beni. Tutti e tre, all’uscita, era convinti di aver visto qualcosa che non dovrebbe esistere. 

“Ho un figlio, l’idea che possa finire in un posto come questo è scioccante, inaccettabile” dice Miraglia. “Sono minori scappati da Paesi in guerra che meritano l’accoglienza di un Paese in pace e civile, non possono passare un mese in questa struttura collettiva, una sorta di campo profughi, senza che si attivino le tutele previste dalla legge e che siano inseriti in ambienti protetti. Questo luogo non è adatto ad accoglierli, le difficoltà del sistema non giustificano questa situazione”. 

“Questo è diventato un parcheggio per minori, un hotspot non può funzionare così, dopo una rapida identificazione dovrebbero andare via” taglia corto Paolo Beni. “L’Italia deve essere in  grado di attivare anche i successivi passaggi dell’accoglienza, riconosciamo gli sforzi che sta facendo il ministero dell’Interno, ma evidentemente non bastano, non possiamo permetterci queste situazioni”. Il deputato fa l’esempio di un circuito idraulico: “Se c’è un tappo e continui a riempire il circuito, a un certo punto esplode”.  

“La situazione è anomala, non dovrebbero stare qui. Di preoccupante – denuncia Oliviero Forti – c’è anche un abbassamento dell’età: prima trovavi sedicenni e diciassettenni, ora molti sono più piccoli, abbiamo visto dodicenni e tredicenni per i quali è ancora più urgente l’inserimento in strutture e percorsi adeguati. Un’operatrice della cooperativa, che loro chiamano Mama Rosa, oggi ha portato delle caramelle. Quelle caramelle hanno illuminato sguardi felici e sorrisi di  bambini“.

Bambini e ragazzi rientrano nell’hotspot alla spicciolata dopo il loro vagare pomeridiano. Si fermano in gruppo poco oltre l’ingresso, alzano il braccio per salutare i cronisti rimasti fuori il cancello, prima di tornare nello stanzone. Magari, domani, si parte davvero. 

Elvio Pasca 

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