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I morti del Mediterraneo dispersi e dimenticati

di  Sergio Talamo

7 aprile 2009 – Ma quanto mai sarà grande, quanto feroce e assassino questo mare che separa l’Italia dal Sud o dall’Est, questo catino solcato da navicelle di cartapesta, questo lago dei sogni dove barconi stipati di uomini navigano verso il nulla?

È un mare fatto di sale e legno marcio, di vomito e luci della ribalta. E’ la via verso “l’isola che non c’è” di una vecchia canzone, verso un approdo indefinito che scompare se solo apri gli occhi e si intravede di nuovo se li richiudi. E’ il viaggio verso l’America, la Svizzera, il Belgio degli italiani di un tempo, la Berlino Ovest per gli orientali che provavano a scavalcare il muro, la frontiera Usa per i messicani che si affollano sui carri bestiame. 

Il ministro degli esteri della Libia  dice che i confini meridionali del suo paese, 4mila chilometri, “sono incontrollabili”, ed è da lì che arrivano gli altri immigrati africani. Sono incontrollabili così come gli 8mila chilometri di coste italiane. Ma non tanto per la loro lunghezza, quanto perché nessun argine si può porre ad un uomo che fugge, se per lui quella fuga vale più della vita.

Per gli uomini e le donne del grande esodo, la Libia, poi Lampedusa, poi la penisola italiana sono soltanto delle tappe. Per andare dove? Questo è il punto: spesso neppure loro lo sanno.

Sono uomini e donne che peccano di ingenuità e disperazione. L’ingenuità che li porta a risparmiare per anni e alla fine arricchire i trafficanti di miraggi. La disperazione di chi ha deciso che non ce la fa più. Alle spalle ha la guerra, la dittatura, la fame o anche solo la noia, la voglia di vedere cosa c’è oltre il povero cortile di casa, oltre la parete di cocci di vetro che da sempre ti copre l’orizzonte.

È un traguardo che vale tutto. Perdere la terra, la famiglia, il passato. Spesso anche la vita e persino il nome. Già, i morti del Mediterraneo non hanno più nome. Sono numeri dispersi nelle cronache, come se appena lasciata la costa da cui provengono diventassero trasparenti. A casa lasciano non solo i documenti, se mai li hanno avuti, ma la loro stessa identità.

Ogni tanto dal dramma affiora un racconto. C’è l’uomo che per salvarsi ha pregato e bestemmiato, e intanto mangiava alghe. Ci sono quelli che si uccidono perché, quando arriva la tempesta, sulla barca non c’è posto per tutti. Ci sono le donne che hanno partorito in alto mare. E poi c’è Asha: “Volevo che almeno i miei figli sfuggissero alla fame, alla povertà, alla guerra che non finisce mai…. Adesso non posso più sognare nulla, perché Ibrahim e Kaled non sono più con me. Il mare ci investiva, eravamo tutti bagnati, sentivamo freddo e non vedevamo nulla. Urlavamo tutti, e quando da lontano abbiamo visto le vostre navi pensavamo di avercela fatta. Invece la barca si è rovesciata, siamo finiti in acqua. Io e mio marito tenevamo per mano i nostri bambini, poi sono scomparsi. La mia vita ormai è finita”.

A tratti, nelle cronache in cui l’immigrazione è solo un fatto politico e di sicurezza, fra decreti flussi, classi speciali e ronde di strada, spuntano squarci di vita come questa, dove ci sono speranza, rabbia, morte. È l’epopea dimenticata degli scheletri che sbarcano per avventarsi su coperte, thè e cornetti, dei cadaveri gettati in mare o ammassati nella stiva, dei rantoli di bambini che senza sapere si sono alzati all’alba, hanno seguito mamma e papà e poi sono scomparsi mentre attorno a loro qualcuno gridava più forte del vento.

In questo sito c’è un angolino dedicato “ai militi ignoti della guerra mondiale per la sopravvivenza… poche parole in questo spazio, che non li riporterà in vita ma almeno ci aiuterà a non ucciderne anche il ricordo”.

È lo spazio di quelle come Asha. Quelle e quelli senza un nome, che oggi, per un giorno, vogliamo mettere in prima pagina.

Sergio Talamo

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