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Goffredo e Roberto, i due Inni d’Italia

Mameli voleva un grande Paese unito nel cacciare lo straniero. Vecchioni invoca un grande Paese che sappia accogliere chi porta qui le sue speranze

Roma – 21 febbraio 2011 – Goffredo Mameli scrisse il suo Canto degli Italiani nel 1847. Aveva vent’anni e un sogno: la sua terra unita, la sua gente non più volgo disperso senza nome ma un popolo capace di trovare gli ideali che rendono gli uomini fratelli. Per lui l’Italia era simbolo dell’amore.
 
Roberto Vecchioni scrive il suo Canto degli Italiani 164 anni dopo, nel 2011. Ha 67 anni, ma per i suoi sogni torna ventenne. Sono sogni grandi, del resto: che la sua terra torni unita, che la sua gente non sia più volgo disperso senza nome ma un popolo capace di ritrovare gli ideali che rendono gli uomini fratelli. Per lui l’Italia deve tornare ad essere simbolo dell’amore, mentre oggi ogni sogno è sordo, disperato, stretto fra il silenzio e il tuono.
 
Goffredo scriveva che “l’Italia s’è desta”. Il gran giorno è arrivato, insomma, dopo che “fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo perché siam divisi”.
 
Roberto chiede che l’Italia si ridesti. Si è addormentata nell’opulenza di pochi bastardi che stanno sempre al sole e nel tormento quotidiano di tanti: operai che perdono il lavoro, studenti che difendono un libro vero, ventenni che ai tempi di Mameli sognavano di morire per un ideale e oggi se ne stanno a morire senza ragione, in un deserto come in un porcile.
 
Goffredo voleva un grande Paese unito nel cacciare lo straniero, l’Aquila d’Austria alleata con il Cosacco: un giogo cui è attaccata da sempre la dignità dell’Italia. “Aprite gli occhi!”, diceva ai suoi concittadini assopiti nella rassegnazione.
 
Roberto invoca un grande Paese che sappia accogliere i tanti stranieri che portano in Italia i loro stracci e le loro speranze. “Aprite gli occhi!”, dice ai suoi concittadini assopiti dall’indifferenza: guardate la barca che è volata in cielo mentre i bambini ancora stavano a giocare.
 
Goffredo diceva “dall’Alpi a Sicilia ovunque è Legnano”, ricordando il luogo dove nel 1176 i popoli lombardi uniti sconfissero Federico Barbarossa. E diceva di Ferrucci che nel 1530 difese Firenze, e del balilla che nel 1746 iniziò la rivolta di Genova.
 
Roberto chiede che la sua gente sovrasti la voce dei vigliacchi che nascondono il cuore, che usano la bellezza eroica della gente del Nord – quella di Legnano, di Firenze, di Genova, quella del Risorgimento, quella della Resistenza – come simbolo del nuovo egoismo.
 
Goffredo era un laico che guardava in alto, tanto in alto da scorgere la luce di Dio, perché “l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore”.
 
Roberto è un laico che guarda in alto, tanto in alto da scorgere la luce di Dio: perché le idee sono come il sorriso di Dio, in questo sputo di universo.
 
Goffredo diceva “siam pronti alla morte” per l’Italia che chiama. Centocinquanta anni dopo, tanti commentatori da Domenica In giudicano retoriche queste parole. Sono le parole di un ragazzo che due anni dopo, nel 1849, per il suo sogno morì davvero. Garibaldi descrisse così alla madre Adelaide il giorno che suo figlio fu colpito: “Mi ripassava accanto, trasportato, gravemente ferito ma radioso… brillante nel volto d’avere potuto spargere il sangue per il suo paese”.
 
Roberto … come finirà il suo Inno? Noi speriamo che, nel 2111, un libro di Storia scriverà parole come queste: “Roberto visse fino a 120 anni, e il suo Inno d’Italia affiancò quello di Mameli. Il suo grido per far rivivere la nostra memoria gettata al vento, l’invocazione a riempire di nuovo la vita di musica e parole, il suo anelito a risentire il pregio di essere uomini, aiutarono l’Italia a ritrovare se stessa”.

Sergio Talamo

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