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Il diritto d’asilo tra Ginevra e Pontida

La Giornata mondiale del Rifugiato si celebra con una guerra a due passi dall’Italia. E per il nostro ministro dell’interno, chi fugge dalle bombe andrebbe rispedito indietro

 

Roma  – 20 giugno 2011 – Conta più la convenzione di Ginevra e il giuramento di Pontida? Il solenne impegno per la difesa dei diritti umani o la miseramente piccola corsa del Carroccio a ritrovare consensi tra il suo elettorato scontento?

Roberto Maroni è arrivato sul palco del raduno leghista con in tasca un decreto legge che triplica il tempo di permanenza dei clandestini nei Cie e vorrebbe ristabilire l’efficacia di arresti e riaccompagnamenti alla frontiera. Linea dura (chissà quanto efficace) contro l’immigrazione irregolare, nessuna novità, né per lui né per il suo pubblico.

Intanto, però, c’è una guerra a pochi chilometri dalle nostre coste, che spinge qui migliaia di persone in cerca di scampo. I più sono già fuggiti dall’Africa Subsahariana, e ora non possono più nemmeno restare in Libia, dove alle angherie del regime di Gheddafi si sono aggiunte le bombe e le persecuzioni di chi li scambia per mercenari.

I racconti raccolti da Medici Senza Frontiere danno una piccola idea degli inferni vissuti da queste persone, ma al ministro dell’Interno certo non servono: conosce bene la differenza tra chi viene qui a cercare lavoro e chi vuole prima di tutto salvarsi la vita. Eppure, pur di assecondare il “foeura de ball” invocato dalla base del suo partito, Maroni non sembra voler  cambiare ricetta di fronte a situazioni così distanti tra loro.

Da settimane, il ministro va ripetendo  la banale considerazione che se non si ferma la guerra i profughi continueranno a partire. L’ha fatto anche a Pontida e non ha stupito nessuno.  In questi giorni però ha aggiunto un corollario meno scontato: se la guerra non si ferma, bisognerà fermare perlomeno i profughi. Con tutti i mezzi possibili.

Il concetto che vorrebbe far passare, con buona pace del diritto d’asilo, è che quei profughi sarebbero al sicuro in un Paese dilaniato dalla guerra così come sarebbero al sicuro in Italia. E che anche se sono molti di meno rispetto ai migranti clandestini che per altre vie arrivano qui, rappresentano comunque un’invasione che il nostro Paese non può gestire.

La diplomazia italiana, anche per salvare gli equilibri interni della maggioranza, si è messa al servizio di questa idea. Così il ministro degli Esteri Franco Frattini ha tirato fuori dal cilindro e offerto al collega leghista un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione: i ribelli libici si impegnano a bloccare i barconi e a riammettere chi viene rispedito indietro dell’Italia.

Basta? Certo che no. Quell’accordo per ora esiste solo sulla carta (tra l’altro, finora, il testo è sconosciuto ai più) e non servono informative dei servizi segreti per capirlo. Se le autorità di Bengasi riescono a malapena a sopravvivere grazie all’aiuto della Nato, difficilmente riusciranno a pattugliare le loro coste e a occuparsi di accoglienza ed eventuali rimpatri nel pieno rispetto dei diritti umani.

Maroni lo sa e, come se chiamasse il settimo cavalleggeri, invoca un blocco navale. Vorrebbe usare i mezzi della Nato contro i barconi: “Sarebbe già una soluzione al problema” ha assicurato venerdì scorso. Il portavoce dell’Alleanza Atlantica gli ha risposto subito, imbarazzato, che il mandato Onu non prevede interventi di questo tipo. Come dire: “Siamo nel Mediterraneo per una guerra vera, non per le battaglie di Maroni”.

Si va avanti così. Con il mondo che celebra la Giornata del Rifugiato  e la Lega che dall’Italia spara, per ora solo a parole, sui diritti umani.

Elvio Pasca

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