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Il tetto e il ghetto

Quelle che oggi sembreranno classi “miste”, sono in realtà le comunità felici dell’Italia di domani. Ora attenzione e cura per gestire la svolta
15 – gennaio 2010 – Mentre già iniziava il fuoco di fila ideologico contro il “tetto” del 30% di studenti stranieri, il Ministero dell’Istruzione ha precisato: dal tetto saranno esclusi i nati in Italia. Si tratta di circa il 37% del totale degli studenti stranieri, in un paese dove ogni anno nascono tra i 55 e i 60mila bimbi stranieri, circa il 10% di tutti i nati.

Una precisazione più che importante: è storica. Sancisce cosa sia in concreto la cittadinanza. Ciò che non si vuole ammettere come concetto generale, riaffiora come complemento di una norma: nascere in un paese vuol dire già essere, almeno potenzialmente, un pezzo di quella comunità e di quella storia. E quindi, specie se sei un bambino, quel paese ha il dovere e l’interesse a tenderti la mano.

La norma Gelmini conferma che il “ghetto” scompare non quando si abbatte una barriera di cemento, ma quando smettiamo di pensare che esista. Già, perché il ghetto non è solo un luogo fisico. E’ un recinto dove la nostra mente rinchiude i problemi per fingere di renderli meno complessi. Ed è un ghetto impenetrabile quello in cui da vent’anni abbiamo infilato gli immigrati.

Non vogliamo mai vederli come persone ma sempre come categoria: clandestini o regolari, islamici, albanesi, rumeni, zingari. Quindi, chi lavora non è più un lavoratore ma un clandestino. Chi prega un altro dio non è più un uomo ma un potenziale sovversivo. Chi è incinta non è più una donna ma un peso per il sistema sanitario pubblico… così come, per la fazione dei buonisti ad oltranza, il rom che sfrutta i bambini o l’uomo che picchia sua figlia perché vuol sposare un italiano non sono più dei criminali ma solo gente con le sue tradizioni.

Il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini ha voluto vedere gli immigrati come persone che vivono con altre persone. Quindi ha scelto una misura razionale, concreta e non gridata.

Il tetto del 30% nelle classi, unito ad una serie di misure per rendere la conoscenza dell’italiano la base di tutto, è una solida pietra sull’edificio della convivenza. Serve ai bambini stranieri, per farli uscire dal ghetto di classi in cui vivono come dentro tribù etniche chiuse; serve alle famiglie dei bambini italiani, perché se tuo figlio è solo in una classe di arabi è molto più facile sentir crescere la diffidenza ed anche l’intolleranza; serve agli insegnanti, categoria importantissima e così spesso dimenticata, che in classi così squilibrate non possono né educare né integrare ma sono quasi degli intrusi malsopportati.   
 
Integrazione vuol dire armonia di nuovi diritti e nuovi doveri. E’ proprio a scuola che si deve imparare che essere italiani vuol dire rispettare dei principi e dei comportamenti e nello stesso tempo vivere appieno la libertà, nella sfera religiosa e in tutto ciò che riguarda la coscienza e l’arbitrio individuale.

E’ per questo che la fusione tra bambini di diverse etnie è in ogni caso salutare. La “quota” non va vista in termini difensivi: limito il numero di stranieri per tutelare gli italiani da chissà quale pericolosa contaminazione. E’ invece un modo per costruire un futuro comune ad una generazione di “nuovi italiani” che, se lo hanno imparato sin da piccoli, vedranno la diversità di nascita, di pelle o di religione come una ricchezza e non come un muro invalicabile.

Quelle che oggi sembreranno classi “miste” – cioè armoniche, e non composte solo da italiani con un paio di arabi di complemento o al contrario da una macedonia di razze con una sparuta minoranza di indigeni – sono in realtà le comunità felici dell’Italia di domani. E’ un po’ ciò che è accaduto quando la scuola italiana si decise a compiere un passo che oggi sembra banale ma che allora fu rivoluzionario: abolire l’apartheid fra maschi e femmine. Da quel momento venne meno quel senso di estraneità fra i due sessi che, al di là delle nostalgie romanzesche e letterarie, ha per decenni segnato in negativo la nostra società.
 
Infine, le norme Gelmini chiariscono una volta di più come le categorie di destra e sinistra non spieghino più la politica e le idee. Decidere che la didattica è la prima alleata dell’integrazione è buona politica e basta. Molto più degli steccati ideologici e dei dogmi opposti sull’"immigrato per natura buono" o sui pericolosi “negri” (tra gli effetti collaterali di Rosarno: non pare vero a certa stampa di rispolverare questa vecchia e infausta parola).

La Gelmini ha dimostrato dove può arrivare il pragmatismo spesso tipico delle donne. Ora gestisca questa svolta con l’attenzione e la cura che spesso i politici, dopo aver enunciato il grande principio, ritengono inadeguata al loro lignaggio.

Sergio Talamo

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