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IMMIGRAZIONE: A BOLOGNA LA PRIMA RICERCA SU MIGRANTI GAY

SENTONO PIU’ IL PESO DEL RAZZISMO CHE QUELLO DELL’OMOFOBIA
BOLOGNA
(ANSA) – BOLOGNA, 24 OTT – Vedono l’Italia più come un paese razzista che omofobo e i loro problemi sono spesso molto simili a quelli dei nostri connazionali. Molto forti, però, rimangono le differenze culturali, tanto che, per un aiuto più mirato, sarebbe necessario ampliare lo spettro degli interventi per venire incontro alla moltitudine di target in campo. Sono i risultati della prima ricerca italiana sui migranti gay, lesbiche e transessuali, promossa dall’Arcigay di Bologna e curata dal sociologo Raffaele Lelleri. Lelleri ha intervistato 31 migranti-Glb che vivono in Italia, provenienti da diversi paesi del mondo. Non un campione statisticamente rilevante, "ma fondamentale dal punto di vista qualitativo", ci tiene a far notare. Il panorama di problematiche che ne è emerso, spiega, "non è poi così diverso da quello di tanti omosessuali italiani". L’approdo in Italia, sottolinea la ricerca, per molti immigrati consiste in una rinascita, lontano dalle persecuzioni e dalle privazioni che vivono in patria, "tanto che molti si scoprono gay proprio qui e addirittura alcuni vivono una vera sbornia, a volte pericolosa". Così, "un buon numero pare già in linea con il nostro modo di intendere l’essere gay", senza però sentire omofobia: "In alcuni paesi rischiano l’impiccagione, dovrebbero preoccuparsi per qualche offesa?", rileva il sociologo. La difficoltà, però, è nell’intercettarli al loro arrivo o una volta che si sono stanziati. Dagli sportelli Arcigay, infatti, ne passano pochi, quasi nessuno da quelli dei servizi sociali. "Vedono la parola ‘gay’ come un’etichetta – spiega ancora Lelleri – oppure si chiedono perché nella lista di indirizzi utili che gli viene consegnata alla Caritas non c’é n’é nessuno che riguardi gli omosessuali?". A contare, infatti, sono soprattutto le differenze culturali: "C’é chi si comporta come un omosessuale, ma non si definisce tale", continua Lelleri, nella sua ricerca, ha evidenziato "come non ci siano categorie definite, anzi quasi tutte le storie sono molto diverse tra di loro". Per cui, conclude, "promuovere un modello unico di assistenza sarebbe sbagliato, ma bisogna ampliare gli interventi a più scenari culturali", magari approfondendo la conoscenza di ogni singolo caso. (ANSA).
Y8C-CST/

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