Contro le tragedie dell'immigrazione serve un impegno internazionale, aiuti allo sviluppo e nuovi canali per l’asilo e per chi cerca lavoro. Il nostro Paese ha colpe tutte sue, quando troverà la forza di cancellarle?
Roma – 3 ottobre 2013 – Centinaia di morti. Chissà se il puzzo di tanti corpi allineati insieme sul molo di Lampedusa diventerà finalmente insostenibile anche nel resto d’Italia e d’Europa. Se saturerà il palazzo dell’Onu a New York dove in questi giorni ci si interroga su come “far funzionare” l’immigrazione.
Il Capo dello Stato invoca “decisioni e azioni da parte della Comunità internazionale”. E non potrebbe essere altrimenti, perché quella che si combatte è una guerra mondiale. Ha però già perso chi pensa di vincerla solo inviando navi a pattugliare il Mediterraneo, anche se lampeggiasse sempre forte il faro del rispetto dei diritti umani, quello che si era spento nell’era dei respingimenti verso la Libia, macchia infame nella storia recente d’Italia.
Quelle navi non saranno la diga capace di fermare un fiume che nasce sulle montagne della povertà, dell’ingiustizia e delle guerre per correre impetuoso verso le pianure della ricchezza, dello stato di diritto, della pace. Una madre che ha il coraggio di attraversare con i suoi figli il deserto e il mare, di mettere sé e le sua famiglia tra le mani dei trafficanti, di finire dietro le sbarre di prigioni disumane nei tanti Paesi che dovrà attraversare, deciderà di non partire perché potrebbe essere intercettata?
Che ne sarà delle persone a bordo dei barconi che incapperanno nelle nostre navi? Dopo averli curati e rifocillati, saremo in grado davvero di valutare a bordo quanti hanno diritto all’asilo politico?Rimanderemo gli altri a casa, dove rimarranno finchè non racimoleranno i soldi e le forze per partire di nuovo? O li riaccompagneremo solo nei porti di partenza, affidando il lavoro sporco, magari in cambio di qualche denaro, a governi che già gestiscono in affanno le loro crisi interne senza riguardo per le convenzioni internazionali?
Le armi di questa guerra sono la cooperazione con i Paesi d’origine, sono quel “piano Marshall” invocato da anni per creare uno sviluppo dove non ci sono le condizioni per vivere una vita minimamente dignitosa. Sono canali di ingresso protetti e veloci per chi fugge da guerre e persecuzioni, così come canali di ingresso legali ed efficaci per chi cerca lavoro, evidentemente attratto non da una chimera, ma da mercati che, seppure in crisi, continuano a offrire più chance rispetto a quelli dei Paesi dai quali fuggono ogni giorno centinaia di persone.
L’Italia può combattere questa guerra da sola? No. Non ne ha i mezzi e non è giusto. È, ripetiamolo, una guerra mondiale. Sarebbe come pretendere dal proprietario di un appartamento al piano terra di accollarsi da solo la ristrutturazione di un intero grattacielo. Però l’Italia deve fare la sua parte, che non è solo soccorrere e garantire pietosa accoglienza finchè bastano le risorse economiche e umane.
È rinunciare alla nostra doppiezza nei confronti di chi arriva sui barconi: sono i disperati in cerca di un futuro migliore sul destino dei quali piangiamo oggi, o sono i criminali, la pericolosa minaccia alla sicurezza delle campagne elettorali di domani? È comprendere che molti di questi, e i loro figli, saranno prima o poi italiani e ricorderanno Lampedusa come ricordiamo Marcinelle. È strizzare i nostri occhi miopi per vedere un futuro prossimo, smettendo di accumulare errori e ingiustizie nel presente.
È chiederci subito e una volta per tutte se la madre di cui parlavamo prima si farà spaventare dal reato di immigrazione clandestina o dalla prospettiva di finire in un Centro d’espulsione. E se l’immenso spreco di soldi, uomini e mezzi impiegati nella guerra ai clandestini non potrebbe essere dirottato in un sistema dell’immigrazione legale che funzioni e in un sistema d’asilo che non lasci per strada le persone alle quali, solo sulla carta, garantisce protezione. È insomma mettere mano adesso a riforme che meritano la stessa urgenza delle altre sulle quali si giocano i destini del Paese.
L’Europa è colpevole, ma noi italiani pure. Abbiamo peccati originali che condannano noi, non altri. E non basterà lanciare accuse e cercare aiuto ad alta voce oppure raccoglierci in un lutto nazionale per non sentire in coscienza i gemiti degli uomini, delle donne e dei bambini morti mentre bussavano alla porta della nostra casa.
Elvio Pasca