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Ma l’Italia è razzista? Risponde don Ciotti

Intervista di Corrado Giustiniani al fondatore del Gruppo Abele ROMA, 14 agosto 2008 – Riportiamo un’interessante intervista di Corrado Giustiniani, giornalista de Il Messaggero, pubblicata oggi sul suo blog "I Nuovi Italiani". Il tema è il razzismo in Italia. A rispondere alle domande del giornalista è don Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele, il “prete di strada” che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa dei più deboli.

Nel 1938, dunque esattamente settant’anni fa, il regime fascista approvava le leggi razziali. Per l’occasione ho realizzato un supplemento assieme ad altri colleghi del "Messaggero", raccogliendo le opinioni di studiosi, ricercatori, protagonisti della società attuale, attorno ai venti di xenofobia e di razzismo che da qualche tempo spirano anche nella società attuale. Lo spazio mi costrinse a concentrare in poche righe il pensiero di un grande personaggio come don Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele, il “prete di strada” che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa dei più deboli. Sono certo di fare cosa gradita ai lettori del blog, pubblicando qui l’intervista in versione integrale.

Don Luigi, c’è più razzismo oggi in Italia, rispetto a qualche anno fa?
«La parola razzismo rischia di essere una semplificazione che non aiuta a capire. Certo, sembra difficile non pronunciarla in casi come quello del campo nomadi di Ponticelli, e della violenza con cui è stato raso al suolo, difficile non percepire un aumento inquietante del fenomeno rispetto al passato. Ma dietro alla parola razzismo dobbiamo riconoscere le paure e l’aggressività di una società individualista e povera di giustizia sociale, dove l’altro è sempre più concorrente, nemico, minaccia».

E come nascono, queste paure?
«Alla base di tutto c’è la crisi del rapporto con l’altro, in una società dominata dall’individualismo. Una recente indagine, condotta dall’osservatorio Demos-coop, dice che due italiani su tre ritengono che “gli altri, se gli si presentasse l’occasione, approfitterebbero della nostra buona fede”. Per cui si guarda con sospetto crescente a chiunque esca dalla nostra cerchia più stretta: famiglia, località, categoria professionale. I sondaggi vanno presi con le pinze, ma l’esistenza di questa deriva è innegabile. Cultura della competizione, desiderio d’immunità dalle regole (anche da parte di chi, come politico, risponde a una doppia istanza etica, verso se stesso e verso la comunità) incapacità di considerare il bene e l’utile come categorie non solo personali, sono alcuni dei fattori scatenanti».

E’ così che ci si scaglia conto gli stranieri?
«La solidarietà, quando viene manifestata, si dirige “verso chi è lontano”, magari nella forma confortevole dell’invio da casa di un sms per finanziare l’iniziativa umanitaria pubblicizata in tv. Ed è facile che, soprattutto tra le fasce meno garantite economicamente, crescano forme d’insofferenza e ostilità verso gli altri, che si richiamano a modalità razziste. Ci si accanisce contro chi sta sotto di noi, contro chi è più indifeso. Gli stranieri sono i primi. Un tempo erano gli albanesi, poi sono stati i marocchini, poi ancora i romeni. Ora è il popolo rom. La logica del capro espiatorio non fatica a trovare nuove vittime su cui scaricarsi. I rom, poi, incarnano alla perfezione lo stereotipo dell’“altro” minaccioso. Sono, tra gli stranieri, i più stranieri di tutti: nomadi, senza una casa, accampati in roulotte, per tanti ormai “ladri di bambini”. Quindi, i più “diversi”, i meno assimilabili».

Dal paese, però, si leva anche una richiesta di legalità.
«Certamente, ed è giusta. Ma non dimentichiamo che la legalità presuppone l’inclusione, il riconoscimento dei diritti e dei doveri. E non dimentichiamo nemmeno le tante forme di illegalità che caratterizzano la società degli stessi “integrati”. Dobbiamo sempre interrogarci sulla nostra incapacità di metterci nei panni degli altri. Porci la semplice domanda: “Ma se mi trovassi io nella loro situazione, continuerei a pensarla così?””. Le recenti misure politiche (creazione della figura di un commissario straordinario per l’emergenza rom, previsione di un reato di clandestinità, identificazione attraverso le impronte digitali i minori di una sola etnia) cavalcano questa ondata. Inseguono e monetizzano la nostra insicurezza, invece di aiuraci a curarla».

Cosa manca, dunque?
«L’impegno che porti a creare, sull’immigrazione, una consapevolezza sociale e culturale, spiegando cosa spinge tanti uomini e tante donne ad abbandonare le loro terre e i loro affetti per cercare, spesso rischiando la vita, un’esistenza più dignitosa. Non bisogna tecere sulle responsabilità di un sistema economico che ha accentuato come non mai le distanze fra ricchezza e povertà».

Come giudica, infine, il comportamento dei media?
«Anche l’informazione, soprattutto quella televisiva, con poche lodevoli eccezioni, fa poco o nulla per contrastare questa deriva, segnalare le contraddizioni, smontare i luoghi comuni. Secondo una ricerca di “Caritas Migrantes”, in tv l’immigrato appare poco, e soprattutto non ha voce: nel 63,9 per cento delle occasioni viene solo citato, mentre nel 9,1 per cento dei casi viene intervistato. Quando va sotto i riflettori è trattato da disperato o da criminale. Solo nell’1,6 per cento dei casi viene consultato come esperto».

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