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Morì di fatica, condannato il datore di lavoro

L’agricoltore abbandonò Vijai Kumar, un bracciante senza permesso che aveva avuto un malore.  Quattro bulgari “schiavi” in un circo

Roma – 23 dicembre 2008 – Otto anni di galera e 13 mila euro di multa. Questa la condanna inflitta ieri a Mario Costa, agricoltore del mantovano accusato di aver lasciato morire di fatica un bracciante indiano senza permesso di soggiorno che lavorava nella sua azienda.

Vijai Kumar si era sentito male mentre raccoglieva meloni sotto il sole, lo scorso giugno.  Per evitare guai, Costa aveva ordinato ad altri braccianti di trasportarlo agonizzante lontano dal suo podere, sotto un filare di alberi, dove poi Kumar sarebbe stato ritrovato privo di vita.

Il pubblico ministero aveva chiesto 30 anni di carcere per l’agricoltore e 16 per la moglie, accusandoli entrambi di omicidio volontario. Ma il giudice per le indagini preliminari di Mantova ha assolto la donna e punito meno severamente Costa, ritenendolo colpevole non di omicidio, ma di abbandono di incapace, violenza e impiego di manodopera clandestina

Schiavi nel Circo
E ieri anche la Cassazione si è occupata delle condizioni di lavoro inumane alle quali sono costretti molti stranieri in Italia, stabilendo che è fondata l’accusa di “riduzione in schiavitù” mossa contro i gestori di un Circo a Salerno.

Questi costringevano una  famiglia (madre, padre e due figlie, una delle quali minorenne) a lavorare per cento euro la settimana anche venti ore al giorno. Tra le “mansioni” dei quattro malcapitati c’era  entrare in una teca trasparente piena di rettili e ragni o in una vasca con dei pesci ‘piranha’.

Le vittime  avevano una certa libertà di movimento e quindi il tribunale del riesame aveva escluso che si potesse parlare di riduzione in schiavitù, ma la procura di Salerno ha presentato ricorso e la Cassazione le ha dato ragione.

I giudici della Suprema Corte hanno stabilito che si può parlare di riduzione in schiavitù  di fronte all’”approfittamento del bisogno esistenziale di immigrati da paesi poveri”. Questi, “spesso incapaci di affrontare le spese di viaggio e di trovare lavoro, impegnano se stessi per pagare il prezzo dell’emigrazione”.

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