Questure, Comuni e uffici della Motorizzazione chiedono ancora di scoprirsi il capo. Violando la libertà di religione, ma anche le indicazioni del Viminale e del Ministero dei Trasporti. Interviene l’Asgi
Roma – 15 dicembre 2016 – Le regole sono chiare. Le donne musulmane che portano il velo (hijab) in Italia possono indossarlo anche nelle foto per carte di identità, patenti, passaporti e permessi di soggiorno, purché copra solo i capelli e lasci ben visibile il volto. Eppure, in un Italia che conta ormai 1,5 milioni di fedeli musulmani, ci sono ancora Comuni, Questure e uffici delle Motorizzazione che pretendono foto a capo scoperto.
Diverse segnalazioni sono state raccolte dall’associazione M.A.I.+ (Monitoraggio Anti Islamophobia) in tutta Italia. “Niente velo nella fototessera”, ad esempio, è quello che si sono sentite dire alcune donne al Comune di Reggio Calabria, alla Questura di Brescia e alla Motorizzazione di Milano, da pubblici ufficiali che giustificavano il divieto con la necessità di mostrare il colore dei capelli.
È per questo motivo che il servizio antidiscriminazioni dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione ha scritto ai ministri dell’Interno e dei Trasporti chiedendo di porre fine a questi comportamenti. “Vi invitiamo a indirizzare correttamente le vostre amministrazioni – scrive l’Asgi – e a porre in essere atti e provvedimenti idonei a consentire la produzione di foto tessera ritraenti donne col capo coperto da “velo islamico”.
Nella lettera, l’associazione sottolinea che solo così si può tutelare un diritto garantito dalla Costituzione, secondo i principi della libertà di religione e della libertà di pensiero sanciti dagli articoli 19 e 21 e che il quadro giuridico è già chiaro. Tanto chiaro che diverse circolari di quegli stessi ministeri negli anni hanno confermato che è possibile indossare l’hijab nelle foto dei documenti di identità.
La Direzione generale dell’amministrazione civile del Ministero dell’interno il Viminale lo scriveva già più di vent’anni fa (circolare n. 4 del 15.3.1995): “Questo Ministero è dell’avviso che nei casi in cui la copertura del capo in vari modi: velo, turbante o altro, è imposta da motivi religiosi, la stessa non può essere equiparata all’uso del cappello, ricadendo così nel divieto posto dall’articolo 289 del regolamento del t.u.l.p.s”.
Se infatti il cappello è “un accessorio dell’abbigliamento il cui uso è eventuale” e “ per le sue caratteristiche, potrebbe alterare la fisionomia di chi viene ritratto”, “il turbante ovvero il velo delle religiose, sono parte degli indumenti abitualmente portati e che concorrono nel loro insieme a identificare chi li porta”. Unica condizione, specificava il Viminale, è che “i tratti del viso siano ben visibili”
Concetto ribadito cinque anni dopo (circolare 24 luglio 2000, n. 300) : “Il chador o anche il velo, come nel caso delle religiose, sono parte integrante degli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto. Sono quindi ammesse, anche in base alla norma costituzionale che tutela la libertà di culto e di religione, le fotografie da inserire nei documenti di identità in cui la persona è ritratta con il capo coperto da indumenti indossati purché, ad ogni modo, i tratti del viso siano ben visibili”.
Il ministero dei Trasporti è tornato sull’argomento molto più recentemente, con una circolare diffusa il 20 ottobre 2006, dedicata alle “Fotografie da apporre sulla patente di guida”. Dice che “Non sono ammessi copricapo a meno di motivi religiosi. Se per motivi religiosi si ha l’obbligo di portare copricapo, bisogna comunque mostrare chiaramente il viso” e tra gli esempi di foto ammesse allegati alla circolare, c’è anche una donna con un velo che le copre capelli e collo.
Le indicazioni giuste, insomma, ci sono. Faticano però ad arrivare in tutti gli uffici chiamati a fare i conti con un’Italia ormai multietnica e multiconfessionale.
Elvio Pasca