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Omicidio Hina. Cassazione: “La religione non c’entra”

I giudici: "Rapporto padre-figlia come possesso-dominio". L’uomo era rabbioso perché lei non ubbidiva

Roma – 19 febbraio 2010 – Non è nella cultura e nella religione della sua famiglia  che vanno ricercate le cause dell’omicidio di Hina Saleem. La ragazza pakistana uccisa nell’estate del 2006 a Brescia dal padre fu piuttosto vittima del senso malato di ”possesso" e "dominio” sviluppato dall’uomo nel rapporto con la figlia. 

 La prima sezione penale della Cassazione ha spiegato così i motivi per i quali, lo scorso 12 novembre, ha resa definitiva la condanna a 30 anni di reclusione nei confronti del padre, Mohammed Saleem.

Per spiegare la barbara uccisione della ragazza (alla quale parteciparono anche i cognati e lo zio)  la Suprema Corte  punta il dito sul ”rapporto fra Hina e la sua famiglia e soprattutto nella inaccettabile concezione, travalicante i pur presenti profili religiosi e di costume rinvenibile anche in contesti diversi, che l’imputato Saleem aveva del rapporto padre-figlia come possesso-dominio”. Determinante, anche  ”l’atteggiamento spesso intimidatorio e violento di costui nei confronti della figlia che non sottostava ai suoi voleri e rivendicava margini di autonomia”.

Anche la cassazione sottolinea il ”motivo abietto” dell’uccisione come pure il fatto che a scatenare la follia omicida sia stato un ”patologico e distorto rapporto di possesso parentale”. “La riprovazione furiosa del comportamento negativo della figlia era fondata non già su ragioni o consuetudini religiosi o culturali bensì sulla rabbia per la sottrazione al reiterato divieto paterno”.

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