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Petre Bogdan, “missionario” romeno nel carcere di Rebibbia

E’ il cappellano ortodosso della prigione, in carica da circa un anno. Sono tanti, per questo là c’è bisogno di interventi, spirituali, ma anche sociali, per capire, per aiutarli e per reinserirli nella società.

Petre Bogdan, 37 anni, sacerdote dal 2001, assiste da due anni, una volta alla settimana, i detenuti romeni del carcere romano di Rebibbia. Non aveva mai incontrato il giovane suicida. Quando Ion Giurgiuveanu è stato trasferito nella capitale dal carcere di Rieti, padre Bogdan era in ritiro sul monte Athos. Ma tutti gli altri detenuti romeni li conosce bene. Sono 180 (un terzo rom) in gran parte rinchiusi per piccoli furti. Soltanto tre scontano pene di 15 anni (ma tre anni sono stati scontati con l’indulto). "Uno di loro aveva chiesto lo stipendio – racconta il sacerdote – non era pagato da mesi. Ha avuto un raptus di rabbia e ha ucciso il suo titolare infliggendogli quindici coltellate".

Gli incontri di padre Bogdan con i detenuti sono semplici: qualche preghiera iniziale e la lettura di brani dalla Bibbia. "Le discussioni sono molto accese – spiega – alcuni mi dicono: «Sei la prima persona che mi ha detto delle belle cose in questi cinque anni che sono in Italia», oppure «sei il primo a trattarmi come un uomo» oppure «sei il primo che mi ha parlato di Dio». Prima delle feste, durante i periodi di digiuno, quasi il 90% dei detenuti viene a confessarsi. Tutti dicono di pentirsi di quello che hanno fatto, e che l’ambiente esercita una grande influenza su di loro".

La cosa più difficile è smontare la loro mentalità. "Hanno una sorta di sindrome di Robin Hood. in una società ingiusta loro sostengono di voler creare un equilibrio, di prendere dai ricchi per dare ai poveri. Cerco di spiegare loro quanto è importante avere un lavoro onesto. Però noto che molti si incattiviscono durante la permanenza in carcere, anche perché qui subiscono anche dei torti. Ricevono dei soldi da casa, ma le loro carte vengono ricaricate solo dopo mesi. Per reclamare il minimo diritto, o fanno lo sciopero della fame, o si infliggono delle ferite".

Eppure, le visite del prete nel carcere romano hanno qualche risultato. "Nel corso di questi due anni non ho mai visto tornare in carcere nessuno dei detenuti che ho incontrato, mentre gli educatori mi dicono che generalmente, molti finivano di nuovo dietro le sbarre dopo un anno". Padre Bogdan è da solo in questa missione. Né il consolato, né le associazioni mostrano interesse verso i detenuti. Ma lui non si scoraggia.

"Vorrei mettere in piedi una biblioteca – conclude – chi può donare libri, è il benvenuto. In secondo luogo, ci sarebbe bisogno di un avvocato generoso e di fiducia. Alcuni detenuti aspettano per 6 mesi, senza sapere perché sono stati arrestati. Gli avvocati d’ufficio non si interessano per mesi della loro sorte. Molti vorrebbero mettersi in contatto con il consolato. In mancanza di un progetto di reinserimento sociale e umano di queste persone, il fenomeno della delinquenza aumenterà. Ci sono tre aree dove c’è bisogno di intervento: i carceri, la prostituzione e i rom. Dobbiamo andare incontro a chi sta ai margini della società".

ROMA – "Il funerale l’ho celebrato al cimitero Flaminio. Lui si chiamava Ion Giurgiuveanu. Aveva 31 anni e si è tolto la vita tagliandosi la carotide con una lametta. Era stato condannato a sei anni in primo grado per tentato omicidio e stava aspettando l’appello. Era di Suceava e non c’era nessuno dei suoi familiari alla funzione. Il funerale è stato pagato dall’amministrazione del carcere".

(4 luglio 2007)

 

Sorin Cehan

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